La legge del contrario: dalla dittatura del pensiero positivo ai falsi miti sulla felicità

Nel 2007, il Wall Street Journal, definì l’atteggiamento degli imprenditori e dei risparmiatori dell’epoca come quello di chi è mosso dalla dittatura dell’ottimismo. Credere, senza riserve, nel potere del mercato e nelle sue infinite possibilità, investendo senza limiti, portò alla successiva crisi economica internazionale e di quello smodato ottimismo, se ne pagano ancora le conseguenze.

Da questo -ed altri- presupposti, parte la ricerca di Oliver Burkeman, nota penna del The Guardian, che, nel saggio “La legge del contrario”, pubblicato nel 2015, critica i fautori della felicità ad ogni costo.

Nonostante diversi anni (e che anni!) siano passati dalla sua data di uscita, “La legge del contrario”, tutt’oggi, permette di riflettere sulle pressioni a cui siamo quotidianamente sottoposti, le quali, prendendo a modello la definizione del Wall Street Journal, potrebbero essere racchiuse nella formula la dittatura del pensiero positivo.

Il pensiero positivo – Corrente Metafisico-Religiosa

“Sii felice, andrà tutto bene.” “Smetti di focalizzarti sugli aspetti negativi della tua vita.” “Guarda la bellezza attorno a te.” “Ripeti ad alta voce: io posso farcela!”

Quante volte abbiamo letto o ascoltato almeno una di queste frasi? Ricordo persino un film statunitense, dei primissimi anni ‘90, in cui la protagonista, per superare i suoi frequenti attacchi di panico, ascoltava ore ed ore di cassette con mantra motivazionali non molto diversi da quelli appena riportati.

Non è un caso che il pensiero positivo sia definitivamente esploso, a partire dalla metà degli anni ’80, proprio negli Stati Uniti. 

Uno dei saggi di maggiore spicco è stato il bestseller “Puoi guarire la tua vita” (1984) di Louise Hay, la quale divenne un vero e proprio guru nel campo del self-help.  Ella stessa, avendo vissuto una vita di difficoltà e abusi ed essendo riuscita a superare, grazie alle affermazioni positive, ogni ostacolo, diventò il simbolo della rivoluzione dell’auto-aiuto.

 Le teorie di Louise Hay si fondarono, a loro volta, sullo studio dei saggi di autori del primo ‘900. Fondamentale fu l’apporto del pensiero positivo professato da Florence Scovel Shinn, esponente del cosiddetto Pensiero Nuovo (attualmente classificato come movimento New Age), che, nel 1925, con il libro “Il gioco della vita”, descrisse il rapporto tra l’uomo e Dio, calando citazioni bibliche nella sua quotidianità.

Infine, un’altra fonte di ispirazione per Louise Hay fu Ernest Holmes, che, nel 1953, fondò la Chiesa di Scienza Religiosa, la quale fu frequentata dalla stessa Hay.

Il pensiero positivo – Corrente Psicologico-scientifica

 A differenza di Louise Hay e dei suoi predecessori della New Thought (Pensiero Nuovo), che intendevano il pensiero positivo in chiave metafisico-religiosa, appellandosi all’importanza di pensare positivo per attirare a sé felicità e benessere fisico, c’è chi ha inteso il pensiero positivo come una teoria strettamente legata alla psicologia.

Questa seconda corrente di pensiero si focalizza sul subconscio e trova in Martin E. P. Seligman uno dei maggiori esponenti.  In “Imparare l’ottimismo”, Seligman dimostra che l’ottimismo non è una propensione intrinseca dell’animo umano, ma un ragionamento che va coltivato con una serie di tecniche ed esercizi, i quali, se ben utilizzati, aiuterebbero a superare periodi di profonda crisi e depressione (se ti interessa la riprogrammazione cerebrale, clicca qui). Poiché abbattersi impedisce la propria realizzazione personale, secondo Seligman, bisogna insegnare a se stessi e ai propri figli a pensare positivamente, fin dalla tenera età, in modo da esercitare e incoraggiare il pensiero ottimistico (teoria espressa anche in Come crescere un bambino ottimista”).

La legge del contrario e la via negativa verso la felicità

Mettendo totalmente da parte la branca metafisica, Burkeman si concentra sulle conseguenze derivanti dalla sconfinata professione del pensiero positivo di stampo psicologico, avvertendo che Il pensiero positivo e l’ottimismo incrollabile non sono la soluzione ma una parte del problema (…)”.

Lo scopo di Burkeman non risiede nel condannare l’essere umano ad una perenne insoddisfazione, ma nel permettergli di raggiungere la felicità, pur non abbandonandosi ai falsi miti indotti dal pensiero positivo; non a caso, il titolo originale del suo saggio recita The Antidote: Happiness for People Who Can’t Stand Positive Thinking” (“L’antidoto: Felicità per persone che non sopportano il pensiero positivo”).

La dittatura del pensiero positivo e la “cultura della felicità” vengono messe sotto torchio dal giornalista britannico, il quale compone, in chiave acuta e irriverente, un vero e proprio saggio sul pensiero negativo.

Una società ossessionata dalla felicità è intrinsecamente incapace di raggiungerla, ci spiega. È bene, quindi, prendere una pausa dai metodi del pensiero positivo, che talvolta estremizzano le differenze cattivo/buono, svilendo l’enorme gamma di emozioni umane e iniziare ad abbracciare la negatività, non più vista come mostro da rifuggire, ma come via per giungere alla felicità.

Gli ispiratori di Burkeman

Ovviamente, il pensiero di Burkeman non nasce dal nulla. Il saggista, infatti, dimostra di apprezzare e rielaborare le teorie del filoso Alan Watts, racchiuse nel testo “La saggezza del dubbio”. Secondo la cosiddetta legge del contrario, sarebbe lo stesso tentativo di rifuggire ansie, paure e insicurezze a farci sprofondare in una ancora più viscerale spirale di insoddisfazione. Per questo, a detta dell’autore, apprezzare il dubbio è l’unico modo per fuoriuscire da tale infruttuoso circolo vizioso.

Un ulteriore spunto di riflessione è dato dagli esperimenti condotti dalla psicologa Gabriele Oettingen, che dimostrano come la tecnica della visualizzazione, osservata dagli esponenti del pensiero positivo, in realtà, non aiuti ad arrivare agli scopi desiderati e talvolta, addirittura distolga il soggetto dal raggiungerli.

Non meno importante è l’apporto di Albert Ellis, padre della Terapia Razionale Emotiva e dello studioso Christopher Kayes. Ad Ellis, Burkeman si ispira nella promozione di un atteggiamento consapevole verso il pericolo, poiché individuare il peggiore scenario possibile serve a circoscrivere l’area delle proprie paure e ad agire con piena coscienza. Burkeman sottolinea che il pensiero negativo è connaturato nell’animo umano e sagacemente afferma che sia stato questo modo di ragionare ad aver preservato l’uomo dai pericoli della vita primitiva, scrivendo: “I nostri antenati dovevano vivere in stato di allarme permanente, per sentire i passi felpati della belva. La selezione darwiniana probabilmente sterminò gli ottimisti che dormivano un sonno profondo e beato.”.

Di Kayes, invece, riprende la teoria della “goalodicy” (in italiano traguardicea o traguardomania), neologismo che identifica la malsana ossessione per il raggiungimento di quei traguardi, che la società sembra porre come momenti necessari nel percorso di formazione e crescita di ciascuno.

Anche Ellis, nei suoi testi, si sofferma spesso sulla auto-imposizione di traguardi, che appaiono come obblighi morali agli occhi delle persone, le quali si sobbarcano di ulteriori e rigorosi doveri, al fine di giungere al loro obiettivo. Tali scopi, inoltre, alla luce degli studi di Kayes, non appaiono come semplici traguardi esterni, bensì come una proiezione della propria identità. Ciò impedisce al soggetto di riconoscere i limiti oggettivi che lo separano dal raggiungimento degli stessi. In tal modo, egli passerà una vita intera a pianificare un obiettivo che non raggiungerà mai.

Il fallimento dell’auto-aiuto

 Burkeman, infine, mina le fondamenta dell’auto-aiuto, per due ragioni: in primo luogo, più che guardare al caso concreto, il pensiero positivo tende ad elaborare modelli che appaiano validi per ogni persona e in ogni circostanza. Burkeman, dunque, ammonisce che “l’ambizione di ridurre i grandi interrogativi dell’uomo a ricette di self help “a taglia unica” o a piani d’azioni in dieci punti è fallimentare”, poiché consigli generali ed astratti mal si conciliano con le mutevoli sorti dell’animo umano.

In secondo luogo, riprendendo Kayes, l’autore considera l’individuazione di un obiettivo e la successiva pianificazione dello stesso come un modo per pensare al migliore futuro possibile per se stessi, escludendo, però, ogni altro aspetto della propria vita, trascurando gli imprevisti e ignorando l’impatto delle proprie decisioni sui soggetti circostanti.

Cosa farebbe Seneca? L’accettazione del dolore

Uno dei più irriverenti suggerimenti, che Burkeman regala al suo fruitore, risiede nel capitolo intitolato “Cosa farebbe Seneca?”. L’autore, infatti, davanti alla spasmodica ricerca della felicità che terrorizza e muove la società del suo tempo, gioca a chiedersi cosa farebbe il noto esponente della latinitas al posto suo e dei suoi coetanei. “La legge del contrario”, dunque, non tralascia l’esame delle teorie di Seneca, il quale viene qui preso in considerazione in quanto divulgatore dello stoicismo, la filosofia di matrice ellenistica che prese piede nel mondo latino proprio grazie alle opere senechiane.

Rispolverando i principi stoici, Burkeman addiviene alla soluzione definitiva agli interrogativi in merito alla definizione di “felicità”, rivelando che l’unica felicità esistente risiede nella accettazione del divenire, del cambiamento, dell’imprevisto e persino dei sentimenti negativi, primo tra tutti, il dolore. Essi non sono che una parte ineludibile della vita di ciascuno. Pertanto, rigettarli serve solo ad alimentare ideali nocivi di inarrivabile perfezione.

Insomma, l’autore sembra trovare la ricetta del benessere nell’abbandono di dosaggi millimetrici e di volumi privi di reale utilità, rimarcando con forza che l’unico modo per vivere felici è smettere di preoccuparsene.