Covid-19: le esperienze degli Italiani all’estero

«Era come se stesse per scoppiare una bomba.» Così, Paolo descrive l’angosciante atmosfera che si respirava poco prima del lockdown, a Madrid, città nella quale si è trasferito per seguire un Master in Giornalismo e Comunicazione Sportiva.

«Abbiamo subodorato che le cose si stessero mettendo male anche per la Spagna, quando la Comunidad de Madrid ha deciso di chiudere le scuole e le università. Oramai era chiaro che stessimo seguendo la strada dell’Italia» continua, spiegandomi che di Covid-19, in Spagna, se ne era parlato già prima della quarantena, quando a Vitoria-Gasteiz, nel Nord del Paese, erano stati riscontrati i primi casi sospetti.

«Mi conforta sapere che non sono stato l’unico ad aver sottovalutato la situazione. Inizialmente, pensavo sarebbe stato un focolaio contenuto e dopo aver sentito dei primi casi in Lombardia, credevo sarebbe successo lo stesso anche in Italia. Invece, quando hanno annullato persino il viaggio-studio in Svizzera, organizzato dall’università,  ho avuto la certezza che non si sarebbe trattato di un problema passeggero».  Parlando del Master, attualmente, tutto appare bloccato: «Continuiamo a fare lezione online, ma eventi, match e conferenze stampa, a cui avremmo dovuto prendere parte, sono stati annullati o sospesi e lo stesso vale per i tirocini, che speriamo di riprendere a settembre».

view of royal palace in spain

Palazzo Reale, Madrid di Luis Quintero on Pexels.com

Nonostante ciò, Paolo ha deciso di non fare rientro in Italia. «Certo che mi piacerebbe tornare, credo sia il pensiero di tutti. Vorrei rivedere la mia famiglia, i miei nonni; manco da casa da Ottobre … quanti mesi sono passati? Non me lo ricordo neanche più!» ammette, «Però la situazione è particolare, i voli sono pochi e quasi sempre vengono cancellati. So che, tempo fa, la Farnesina ne aveva messi a disposizione alcuni, forse li organizzerà nuovamente, ma non sono molto convinto di fare questo passo: mi sembra avventato e non voglio che un viaggio si trasformi in un’Odissea» conclude. Difficile dimenticare il tono preoccupato della sua voce, mentre mi saluta, augurandomi buona fortuna.

«Dalle mie parti, c’è stata letteralmente una corsa all’oro» conferma Valentina, una studentessa italiana in Erasmus a Tarragona. «Persone che, fino al giorno prima, avevano vissuto la movida tarragonese, tra feste e uscite di gruppo, si sono catapultate sui primi voli disposti dalla Farnesina, per ritornare a casa. È stato proprio per evitare tutta quella calca, che ho pensato fosse più opportuno restare qui, in Spagna: volevo preservare me stessa e la salute della mia famiglia. Così, dopo la partenza della mia coinquilina, ho vissuto 50 giorni di quarantena, in completa solitudine».

«In queste settimane, ho cercato di darmi dei pensieri fissi, in modo da scandire la mia giornata» continua a raccontarmi, «ritagliarmi, tra le ore di studio, un momento da dedicare allo sport o alla mia grande passione: la cucina, sperimentando ricette locali, suggeritemi dai miei amici spagnoli. Ogni giorno, sono stata inondata di videochiamate di amici e familiari e il loro affetto mi è giunto, nonostante la distanza».

Riflettendo sull’esperienza appena vissuta, mi confida: «Trovandomi sola in casa, per la prima volta, mi sono sentita un po’con le spalle al muro. Dopo i primi mesi di Erasmus, in cui mi sembrava di essere una trottola che gira vorticosamente, poiché sa che, se si fermasse, perderebbe alcune esperienze irripetibili, mi sono finalmente data il tempo di pensare all’importanza di avere un luogo che si possa definire CASA. Insomma, mi sono riappropriata dei miei spazi personali, completamente da sola e in un contesto tutt’altro che regolare, il che mi ha ulteriormente arricchito».

woman holding two smartphones busy texting

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Da un punto di vista sociale, però, la quarantena, a detta di Valentina, non ha portato ai risultati da lei sperati: «Adesso che qui, in Catalogna, siamo fuori dal lockdown, trovo particolarmente irrispettoso che si vada in giro senza i presidi sanitari consigliati, vivendo all’insegna della assoluta normalità. Mi guardo attorno e mi sembra che la gente abbia vissuto due mesi in letargo e adesso, si sia svegliata, dimentica di ciò che è accaduto finora. Speravo in una maggiore responsabilizzazione della popolazione, che, invece, si ricorda del Covid-19, solo quando, alle 20:00, applaude dal balcone, commemorando le vittime del virus. Un gesto un po’ ipocrita, sinceramente».

Anche Alessandra ha deciso di rimanere in Spagna. Partita dopo la laurea per fare esperienza all’estero, si è trasferita a Valencia poco prima dello scoppio della bomba. «Sono arrivata qui il primo di febbraio e nemmeno venti giorni dopo, si è iniziato a parlare di casi di coronavirus in Italia. Quando ci è giunta la notizia, il governo spagnolo ha tentato di rassicurare i cittadini, minimizzando il problema. Era un periodo di cambiamento per me: da quando ho terminato il mio Erasmus in Spagna, ho desiderato tornare a vivere qui; ci ero finalmente riuscita e BOOM, è arrivato il Covid-19. È per questo che, inizialmente, del virus non volevo minimamente sentir parlare: mi appariva come una minaccia, un ostacolo alla realizzazione dei miei sogni e fare un passo indietro per tornare in Italia, dopo tanti sacrifici e avendo anche trovato lavoro, mi sembrava un enorme fallimento» mi riferisce, mentre, indaffarata, prepara la cena. «La mia fase del rifiuto si è, però, presto scontrata con la realtà. Dopo aver reso noti i primi contagi, la Comunidad de  Madrid ha chiuso scuole e università, lasciando, però, ancora aperti i confini della regione. Così, molti cittadini ne hanno approfittato per trascorrere il weekend a Valencia e Barcellona: nel giro di una settimana, il virus si è diffuso anche qui».

È stato con l’inizio della quarantena che Alessandra ha cominciato a preoccuparsi maggiormente per le sorti sue e della sua famiglia: «I miei genitori mi hanno più volte chiesto di tornare in Italia e testardamente, mi sono sempre rifiutata, forte del fatto che, grazie allo smartworking, avessi mantenuto il mio lavoro come insegnante privata. Nonostante fossi sicura della mia decisione, le notizie poco rassicuranti provenienti dall’Italia e la difficile situazione spagnola mi hanno fatto vivere momenti di grande sconforto. Al di là delle preoccupazioni personali, infatti, il problema che stiamo affrontando è globale e mi fa sentire decisamente impotente. Non è bello vedere la tua Nazione e il resto del mondo in queste condizioni e ancora meno essere incapace di prestare un aiuto fattivo».

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Per quanto riguarda il suo futuro più prossimo, Alessandra naviga a vista: «Aver continuato a fare video-lezioni non mi ha fatto pesare eccessivamente la quarantena. Sono sempre stata una persona molto attiva e sono felice che, nonostante le dovute restrizioni, nemmeno in questo frangente mi sia fermata. Devo ammettere, però, che, se fin qui è andata meglio di come sperassi, guardando al domani, la mia apprensione è molteplice.  La Spagna sta entrando nella Fase 1 (ndr. la Fase 2 italiana) in maniera scaglionata: a seconda del numero dei contagi di ciascuna regione, si decide se riprendere o meno le attività socio-commerciali. Noi, per esempio, siamo ancora in Fase 0 (ndr. quarantena) e questo ha acuito i dissidi politici tra la Comunità Valenzana e il governo centrale. Capirai che la situazione attuale non è delle migliori e la mia preoccupazione non è solo politica, poiché tali decisioni influiranno anche sul mio lavoro, che non so se mi verrà rinnovato o meno».

Insomma, l’incertezza resta alta, ma Alessandra non si dà per vinta: «La mia consolazione è sapere di aver fatto tutto ciò che era in mio potere per continuare a stare in Spagna e realizzare il mio sogno. Anche se dovessi tornare a casa, non ho nulla da recriminarmi. Sono in pace con me stessa, nella consapevolezza che non tutto, nella vita, può essere controllato. L’importante, per me, è averci provato fino in fondo» mi dice fieramente, conscia che la Spagna sia il suo posto nel mondo.

Ben diversa, invece, è la prospettiva di Floriana e Alessio, una coppia di italiani all’estero che ha deciso di trascorrere insieme la quarantena. «Appena prima che chiudessero i confini regionali,» mi spiega Alessio, «ho capito che non avrei voluto passare il lockdown da solo, a Valencia; quindi, ho immediatamente raggiunto Floriana in Catalogna». Trasferitosi da poco in Spagna, Alessio ha presto trovato lavoro presso un’azienda valenzana, ma la crisi Covid-19 non ha aiutato il suo settore. «A Fase 0 inoltrata, mi sono trovato senza lavoro e adesso, non posso fare altro che mandare curriculum e fare colloqui su Skype, nella speranza che la situazione occupazionale si sblocchi al più presto. Il piano è rimanere qui fin quando la mia fidanzata non terminerà il dottorato e poi, magari, tornare in Italia. Nel frattempo ci reinventeremo, non possiamo, di certo, stare con le mani in mano!» esclama con energia.

couple walking on street

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«Non mi sento di poter dire che, qui, ho trovato una nuova casa» mi confessa Floriana, in un lungo sfogo telefonico. «Intendiamoci: ho passato anni, in Italia, a cercare lavoro in ogni settore e quando ho avuto la possibilità di svolgere un importante dottorato di ricerca in una cittadina della Catalogna, non ci ho pensato due volte e sono partita, soprattutto perché, avendo già vissuto in Spagna, ne serbavo un ricordo positivo. Sono sicuramente grata per l’opportunità ricevuta, ma a livello umano mi sento particolarmente frustrata. Ho notato una grande differenza culturale tra le varie regioni iberiche: da queste parti, sia io che gli altri ragazzi stranieri, che ho avuto modo di conoscere, ci sentiamo ancora degli estranei, eppure è più di un anno che siamo qui».

«Tirando le somme,» conclude «posso dire che questa quarantena, per lo meno, mi è servita a fare chiarezza su ciò che voglio dal mio futuro: concludere il lavoro che ho iniziato e che porto avanti con impegno e poi pensare a spostarmi in un’altra regione spagnola o, nel migliore dei casi, a tornare in Italia insieme ad Alessio. Insomma, la nostra Fase 1 sarà una sorta di countdown verso il rimpatrio!» scherza alla fine, pur lasciando trasparire una nota di delusione.

Le parole di Floriana sono un ottimo spunto di riflessione  per considerare il ruolo che le differenze culturali hanno giocato nell’affrontare la crisi Covid-19. A questo riguardo, nella corsa alla ricerca del modello da copiare, mi viene in mente l’esempio della Svezia, nazione eletta, da tv e giornali nostrani, patria del senso civico, la quale, solo grazie alla collaborazione di tutti i cittadini, ha fronteggiato la crisi con estrema razionalità, senza subire momenti di stop.

«Mettere a confronto la Svezia e l’Italia significa paragonare due mondi completamente diversi, ove nessuno è migliore dell’altro» chiarisce immediatamente Melania, che, insieme al suo fidanzato, vive a Uppsala (Svezia), dove lavora come ricercatrice universitaria.

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«Quando in Italia è scoppiata l’epidemia, mi sono molto allarmata; si sa, stando lontani da casa, le paure raddoppiano. Successivamente, insieme al mio ragazzo, ho cercato di essere razionale e pensare scientificamente, nel tentativo di capire cosa stesse succedendo. Intanto, il numero dei contagi iniziava ad aumentare anche qui. Adesso, siamo a circa 26mila casi in tutta la Svezia, ma non ha senso parlare di infetti dal momento che, da noi, i test a tappeto non sono mai stati somministrati. Posso, invece dirti che la curva dei contagi cresce molto più lentamente che in Italia, complice, appunto, una cultura diversa dalla nostra, fatta di abitudine al distanziamento sociale e alla vita prettamente casalinga» mi aiuta a comprendere, Melania. «Per quanto riguarda le misure governative, nonostante i morti e gli infetti, in numero superiore rispetto ai restanti Paesi Scandinavi, in Svezia, ci si è basati soprattutto sul buonsenso della popolazione. La maggior parte degli svedesi ha compreso, in totale autonomia, la pericolosità del virus, prendendo le precauzioni necessarie, ma le attività non si sono mai davvero arrestate: le scuole sono aperte, i bambini giocano per la città e i pub e i parchi restano luogo di ritrovo per i più. Io, per esempio, non ho potuto svolgere la mia attività da casa e mi sono dovuta recare quotidianamente sul luogo di lavoro. In queste condizioni, devo ammettere, non è stato facile per me. Non mi sono sentita tutelata e non mi sento, tuttora, sicura. Ogni giorno, per lavoro, rischio di infettarmi e trasmettere il virus a chi mi circonda e questo mi crea preoccupazione». Mi confessa, poi prosegue, spiegandomi che le norme così blande introdotte in Svezia, oltre ad essere dettate dalla situazione culturale, trovano anche altre basi: «Secondo la legge costituzionale della Svezia, non si può vietare la libertà di scelta dei cittadini, inoltre la minore densità abitativa, di cui vanta questo Paese, permette un migliore contenimento del virus; senza dimenticare che i tecnici che governano la Nazione professano la tesi dell’immunità di gregge».

L’ormai famoso lemma immunità di gregge è entrato a far parte del nostro vocabolario anche grazie ad uno dei suoi più importanti fautori, il premier inglese Boris Johnson, il quale, inizialmente, ha propeso per l’esposizione in massa dei cittadini britannici al Covid-19, successivamente, ha fatto marcia indietro, introducendo misure di limitazione del virus.

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«Quando il coronavirus ha raggiunto l’Europa, io mi trovavo a Leicester (UK), dove sono tuttora.» A parlare è Cesare, ricercatore per il Research Centre for Museum and Galleries e dottorando in Museum Studies, che, dal 2013, vive nel Regno Unito. «Inizialmente, la situazione mi ha alquanto confuso: in Italia le misure di contenimento erano già state introdotte, invece, qui, il Primo Ministro continuava a procrastinare, dicendo di essere guidato dalla scienza. Eppure, sembrava che il Governo si stesse rifugiando dietro il baluardo della scienza per evitare le proprie responsabilità. Poche settimane dopo, infatti, anche noi eravamo in lockdown». Come per Valentina, anche per Cesare, stare tutto il tempo da solo, chiuso in un piccolo appartamento in centro, non è stato facile, ma, tra workshop online e stesura del progetto di dottorato, si è tenuto impegnato, superando i primi attimi di sconforto. Infatti, quando gli chiedo se, in questo periodo, abbia avuto intenzione di tornare a casa, la sua risposta è categorica: «No, non ho mai pensato di tornare in Italia. Vivo nel Regno Unito da anni, ormai e per quanto la mia famiglia sia ancora lì, non vedo più l’Italia come la mia residenza stabile. Sarei dovuto tornare a trovare i miei ad aprile e a giugno, ovviamente queste piccole gite sono saltate, ma le recupererò in futuro».

Chi, invece, è tornata a casa è la sua amica Noemi, insegnante in una scuola elementare di Londra, dal lunedì al venerdì e cameriera in eventi privati, durante il weekend, la quale mi rivela che il burrascoso rimpatrio nella sua Reggio Calabria è avvenuto per intercessione di una persona a lei molto cara. «In Inghilterra, le scuole non hanno mai chiuso, per dare adito ai figli delle famiglie meno abbienti e dei lavoratori essenziali di non restare soli a casa» narra. «Ai primi di marzo, mi trovavo in classe, quando ho ricevuto una telefonata dall’Italia: era mia nonna, in lacrime, che mi pregava di tornare. Non riesco a pensare che nessuna delle mie nipoti sia al sicuro, mi ha detto. Infatti, mentre io ero lontana e rischiavo di contrarre il virus, a causa del mio lavoro, mia sorella era in una situazione ben peggiore della mia, poiché, lavorando come medico a Milano, si trovava a stretto contatto con numerosi pazienti infetti. Dal punto di vista economico, inoltre, non potevo più permettermi di pagare tutte le spese di vitto e alloggio senza il mio secondo lavoro, ovviamente sospeso a causa della interruzione di eventi e feste. Insomma, alla fine, ho fatto un bilancio dei pro e dei contro e mi sono convinta a tornare. Ho prenotato un biglietto per Roma con un volo della Farnesina e di lì ho preso un altro aereo per Lamezia».

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L’accoglienza ricevuta da Noemi, però, non è stata delle migliori. «Nonostante il permesso della Farnesina, sono stata trattenuta per quasi un’ora all’aeroporto, finché, dopo vari battibecchi, non mi hanno rilasciato con una dichiarazione di ingresso ingiustificato. Non è il modo in cui mi aspettavo di essere accolta dal mio Paese, ma l’importante è essere qui e stare bene». Poi chiosa: «Chiaramente, mi manca molto la mia vita a Londra e il mio lavoro, che ho la fortuna di poter continuare a svolgere, pur se a distanza, ma tornare in Italia, per me, è stata la cosa migliore da fare, sotto tutti i punti di vista».

Non meno difficoltoso è stato il rientro di L., che, nei giorni immediatamente precedenti all’inizio del lockdown italiano, si è trovata a dover affrontare molteplici spostamenti. «A febbraio, sono partita per l’Irlanda, con lo scopo di seguire un corso di inglese della durata di un mese. Qualche settimana dopo il mio arrivo, mi sono giunte le prime notizie sul propagarsi del virus nel Nord Italia e mentre i miei genitori erano spaventati e la stampa locale si occupava dei crescenti contagi italiani, l’Irlanda non accennava a prendere posizione in merito. Nessuno usava i presidi medici indicati -che, tra l’altro, rimanevano quasi introvabili– e nella struttura in cui alloggiavo, continuava ad essere accolta gente proveniente da tutto il mondo. Negli ultimi giorni di Febbraio, sono giunti persino dei ragazzi da Milano, che, all’epoca, era già zona rossa. La mia paura diventava sempre maggiore. Inoltre, sapevo che, a inizio marzo, mi sarei dovuta recare in Francia per una competizione di wine law, a cui dovevo partecipare a nome della mia università. Nonostante, fino alla fine, abbia cercato di raggiungere la Francia direttamente dall’Irlanda, i numerosi voli cancellati mi hanno costretto a tornare in Italia, per poi ripartire per Reims, il mattino seguente.»

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Una volta arrivata all’aeroporto irlandese, L. mi racconta di non essere stata sottoposta a nessun controllo. «Era come se l’emergenza Covid-19 non li toccasse minimamente. Appena atterrata in Italia, mi è sembrato di essere catapultata in una realtà parallela: mi è bastato vedere il personale con tute anticontagio, mascherine e guanti per comprendere il rischio che stavo correndo».

A quel tempo, mi assicura L., anche la Francia sembrava ignorare il problema: «Ho parlato con gli organizzatori dell’evento per chiedere loro di esimermi dal partecipare, ma mi hanno risposto che se non fossi andata, il mio team sarebbe stato squalificato. Anche il mio superiore ha voluto che partissi, non mi potevo rifiutare! Per questo, con non poco timore, sono arrivata a Reims. Lì, sono venuta in contatto con almeno una quarantina di persone, anch’esse prive di presidi sanitari». Conclusa la competizione, L. si è trovata a dover vivere una vera e propria avventura, tra coincidenze annullate e voli dai prezzi esorbitanti. Dopo aver attraversato, in una notte, metà del Paese, col telefono alla mano per non perdersi la conferenza stampa del premier Conte – che annunciava l’avvio della quarantena in tutta Italia-, L. ha finalmente raggiunto il solo aeroporto che le permettesse rimpatriare. «Al gate, gli italiani si riconoscevano subito: eravamo gli unici a tentare di mantenere le distanze di sicurezza e seguire le norme igieniche impartiteci dal  Ministero della Salute. Alcune coppie con bambini avevano le lacrime agli occhi, mi hanno raccontato che, trovatesi, da un giorno all’altro, bloccate in Spagna, senza aerei né treni, hanno dovuto, prima, raggiungere la Francia in auto e poi, imbarcarsi sul primo volo per l’Italia».

Alla fine, toccato il suolo italiano, L. ha iniziato la quarantena, separata dalla sua famiglia: «Ho preferito stare a casa da sola, invece di tornare dai miei, mai avrei voluto esporli a tanti pericoli! Mi sono resa conto di aver fatto la scelta giusta, quando, una settimana dopo il mio rientro, l’istituto irlandese, presso cui avevo seguito i corsi di lingua, mi ha inviato una mail, avvertendomi che ero entrata a contatto con una persona affetta da Covid-19 e che avrei dovuto immediatamente autodenunciarmi alle autorità locali. Non immagini che spavento! Ho pensato a tutte le persone che avevo incontrato in quel periodo e che avevo potenzialmente infettato.

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Per venti giorni, sono stata completamente barricata in casa, finché la stessa ASL non mi ha dato l’autorizzazione a uscire per fare la spesa. Fortunatamente, sto bene, ma non è stato facile vivere tutta questa altalena emotiva senza nessuno al mio fianco, soprattutto dopo aver trascorso tanti momenti incredibili insieme a persone fantastiche. Sono 5 mesi che non vedo la mia famiglia. Mi si stringe il cuore a pensare di aver trascorso la festa della mamma lontano da casa, ma tornare dai miei mi sembra azzardato. Spero di riabbracciarli presto, perché mi mancano da morire!».

«Ora che sono tornata a casa, mi sento molto meglio» queste sono le prime parole di Rita, che, come Alessandra, ha dovuto convivere col coronavirus, fin dal suo trasferimento a Brighton. «A fine gennaio, ero appena arrivata in UK per svolgere il mio tirocinio e già, nel mio ufficio, si iniziava a parlare di questo famoso virus cinese. Devo dire di essere stata fortunata, poiché, sebbene le misure di contenimento introdotte in Inghilterra siano state adottate in ritardo, il mio capo si è subito dimostrato attento al problema, ordinando immediatamente mascherine e guanti per tutti i dipendenti. Il momento di panico vero e proprio, però, lo abbiamo vissuto a metà febbraio, quando non solo si è scoperto che l’untore,di cui parlavano tutti i TG, era proprio un cittadino di Brighton, ma soprattutto quando una mia collega ha iniziato ad avvertire i sintomi del virus, dopo essersi recata in un clinica, chiusa a seguito della presenza di diversi casi di Covid-19 non individuati in tempo. Insomma, abbiamo chiuso l’ufficio, aspettato di sapere come stesse la nostra collega e poi lo abbiamo riaperto, ma solo per pochi giorni, infatti, dopo qualche settimana, abbiamo intrapreso ufficialmente lo smartworking». Sottolinea, inoltre, che la scelta del telelavoro è stata compiuta del suo capo in modo del tutto discrezionale, poiché, allora, il governo inglese non aveva ancora provveduto a emanare misure di alcun tipo.

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Circa 15 giorni dopo, Rita ha ricevuto una chiamata proprio dal suo superiore: «Prendi il primo volo e vattene, ché qui chiuderanno il Paese da un momento all’altro! mi ha detto e allora, ho iniziato la ricerca del volo e dopo varie cancellazioni, sono riuscita a tornare il 24 Marzo, riducendo il mio tirocinio da tre a due mesi.» E la tua collega come sta? Ha fatto il tampone? Le domando. «No, no, quale tampone!» mi risponde secca, «In Inghilterra ci si sottopone al test solo in casi particolarmente gravi, mentre lei aveva soltanto un forte mal di gola. Le hanno detto di restare a casa e attendere che i sintomi si acuissero per richiamare le strutture addette. Per fortuna, il dolore è passato e abbiamo anche scoperto che, pur essendo stata in quella clinica, non era entrata a contatto diretto con i soggetti infetti. Ora sta bene, ma ci ha fatto prendere un bello spavento!» mi rivela, ancora sbigottita.

«Mi sembrava che fossero tutti ignari della pericolosità del Covid-19 o che, semplicemente, non si curassero abbastanza di ciò che stava succedendo» questo è il quadro dipinto da Camilla, una giovane studentessa in Erasmus a Manchester, che, a causa del coronavirus, è stata costretta ad abbreviare il suo soggiorno all’estero, da nove a sei mesi. «Da quando ho avuto notizia di ciò che stava succedendo in Italia, ho iniziato anch’io ad attuare regole di isolamento e distanziamento sociale. Era Marzo e in Inghilterra le persone si comportavano come se niente fosse, i pub erano pieni e anche i miei stessi amici continuavano ad uscire regolarmente. Eppure, io non me la sentivo di far finta di niente, con tutto quello che stava accadendo in Italia e nel mondo. Ricordo ancora quel giorno in cui vidi la conferenza stampa del Premier Boris Johnson, le sue parole così distaccate, il suo preparatevi a perdere i vostri cari, mi stranirono molto. Pensai che la colpa delle tante morti, che Johnson ci stava anticipando, fosse delle autorità, che nulla stavano facendo per controllare l’avvento del virus».

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È stato in quel momento che Camilla si è convinta a tornare in Italia: «Non posso dire di aver preso questa decisione a cuor leggero. L’Erasmus è stata un’esperienza entusiasmante e aver dovuto rinunciare, seppur in parte, a tutto ciò che avrei potuto continuare a vivere stando in Inghilterra, non è stato facile, ma ho preferito rientrare prima che fosse troppo tardi. Spero, comunque, di poter tornare a Manchester appena l’emergenza si sarà conclusa, perché mi sono trovata davvero bene: l’università è eccellente e mi ha dato la possibilità di seguire le lezioni online, anche dopo il mio ritorno in Italia. Se devo essere sincera» prosegue,  «la crisi Covid-19, da un punto di vista prettamente accademico, è stata gestita molto meglio in UK che nella mia università di appartenenza. A volte, mi sembra che dalle nostre parti, invece di facilitare il percorso di uno studente, non si faccia altro che complicarlo …» si lascia andare, infine.

«Non voglio ripetere la stupida frase in Italia fa tutto schifo e all’estero va tutto bene: l’emergenza Covid-19, inizialmente, è stata presa sottogamba dal Belgio; le misure di contenimento sono state attuate con un certo ritardo -anche a causa della struttura federale del Paese, che, con i suoi 9 Ministri della Sanità, non permette di prendere decisioni rapide su argomenti tanto delicati- e ne stiamo tuttora pagando le conseguenze. Nonostante ciò, mi preme rimarcare che, a mio parere, l’atteggiamento tenuto dal governo belga sia stato connotato da maggiore maturità, poiché si è ragionato più sul come fare a risolvere il problema che sul cosa poter o non poter fare» mi scrive D., che, da quasi un anno, vive e lavora in Belgio.

drawing of hands being washed

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«Si è riflettuto, soprattutto, su come continuare a vivere senza rinunciare alla normalità, scongiurando danni a se stessi o agli altri; per questo, per le strade, sono stati affissi cartelloni che spiegano le norme da seguire e persino negli asili, rimasti aperti all’inizio della quarantena, si sono tenute lezioni per far comprendere ai bambini cosa fosse il coronavirus e come contrastarlo».

Come Cesare, anche D. non ha avuto esitazione del dirmi che, in questo periodo, non ha mai desiderato tornare a casa: «Rinunciare a restare qui, per dover rimpatriare e sottopormi a due settimane di quarantena obbligatoria, non mi avrebbe reso felice. Sono rimasto in Belgio e per quanto strano possa sembrare, proprio in queste settimane, in cui ho avuto meno possibilità di vedere e parlare con le persone del luogo – a meno che non fossero i cassieri del supermercato – mi sono sentito molto più vicino a loro».

«Dopo essere stato qualche giorno dai miei, sono tornato qui all’inizio di Marzo. Tre ore dopo il mio rientro, l’Italia veniva dichiarata zona rossa dal Primo Ministro, Giuseppe Conte» mi racconta. «Ricordo di essere stato spettatore della sua conferenza in un fastfood locale: a quel tempo, il Covid-19 contava un solo caso accertato su tutto il territorio belga e l’argomento occupava, a malapena, le terze pagine di politica estera. Non riuscivo a capire come due Paesi potessero trattare lo stesso tema in maniera tanto diversa. Così, ascoltando le parole del mio Presidente del Consiglio, mi sono reso conto che nessuna delle sue risoluzioni avesse davvero effetto su di me. Questa consapevolezza, mi ha fatto improvvisamente comprendere che la mia vita non era più nelle mani del governo italiano, che le mie sorti erano le stesse sorti del popolo belga. Mai come in quel momento, ho avvertito che una parte di me si stesse irrimediabilmente legando al Paese che mi stava ospitando

«Alla fine,» ironizza, «se ho trovato il coraggio di richiedere la tessera al supermercato e registrarmi al mio comune di residenza, dopo quasi nove mesi di incognito, è stato anche merito di questa esperienza».

Con queste parole, si conclude l’ultima delle dodici testimonianze che ho avuto modo di raccogliere nell’arco dell’ultima settimana. Dodici giovani italiani, tra studenti e lavoratori, che, grazie al potere del passaparola, mi hanno aperto le porte – è il caso di dirlo – della loro casa, raccontandomi, con schiettezza e un velo di preoccupazione, un frammento frastornato e inusuale delle loro vite. Alle loro storie, tutte diverse, eppure tutte accomunate da spiccata vivacità intellettuale, forza d’animo e capacità di adattamento, non intendo aggiungere riflessioni che risulterebbero superflue e scontate. Colgo, invece, l’occasione per ringraziarli per l’insostituibile apporto e l’immensa disponibilità dimostrati e mandar loro il mio più grande in bocca al lupo!

AWI: l’arte contemporanea contro la crisi Covid-19

Primo Maggio, festa dei Lavoratori. Festa, così si chiama lo stare in piazza a cantare abbracciati fino a sera, sventolando bandiere e alzando urla e cori in cortei e manifestazioni.  Eppure, oggi, se pensiamo a capannelli di gente, la prima parola che ci viene in mente non è festa, è assembramento.
Ecco che il Covid-19, da molti inizialmente considerato un virus passeggero, si palesa come un cambiamento inaspettato delle nostre abitudini, addirittura del nostro linguaggio e ci costringe, o forse è meglio dire, ci consente di ripensare le strutture sociali, culturali, normative e persino semantiche con cui abbiamo, finora, vissuto.
Un primo maggio particolare, quello targato 2020, un concerto di voci sussurrate da ogni angolo d’Italia, unite in un appello, che ancora non trova risposta: che ne sarà di noi?
La crisi Corona virus e le conseguenti misure di contenimento della pandemia hanno imposto la chiusura o sospensione della maggioranza delle attività lavorative, dando luogo a uno dei momenti più difficili della storia della economia internazionale. Per quanto gli assetti governativi abbiano cercato di aiutare i lavoratori della gran parte dei settori impiegatizi, alcuni di essi non hanno ancora ricevuto precise indicazioni sul loro futuro.

“Siamo stati i primi a smettere di lavorare e non sappiamo quando inizieremo di nuovo” si sente, sempre più spesso, quando si interpellano le lavoratrici e i lavoratori dell’arte contemporanea, i quali, per far fronte all’incertezza che li attanaglia e incentivare una soluzione equilibrata e fattiva del problema, hanno dato vita ad AWI (Art Workers Italia).
AWI è un gruppo apartitico e indipendente che riunisce, su base volontaria, gli art workers italiani, allo scopo di coinvolgere il più ampio numero possibile di specialisti del settore nella realizzazione di proposte concrete, in primis, per affrontare la crisi Covid-19 e successivamente, per dare nuova regolamentazione etico-sociale e normativa a un ambito occupazionale spesso precario, definito sulla base di contratti atipici e intermittenti, privo di enti di tutela specifica e talvolta, di compensi adeguati alle ore di lavoro impiegate. Un ambito, dunque, facile preda di sfruttatori che alimentano il fenomeno del lavoro sommerso.
Per art workers, spiega il Manifesto del gruppo (che potete trovare sul sito ufficiale http://www.artworkersitalia.it), si intendono artisti, educatori museali, mediatori culturali d’arte, allestitori di mostre, producer e tecnici del suono, tecnici dell’illuminotecnica, critici d’arte e art writer, social media manager e comunicatori, press officer e molte altre figure professionali.
Insomma, AWI cerca di unire arti visive e musicali senza tralasciare tutti quei lavoratori che, pur non potendo essere definiti artisti, gravitano attorno a tale mondo, ricoprendo ruoli indispensabili per la buona riuscita dell’intero settore.
Nel programma di AWI si può distinguere tra obiettivi a breve e a lungo termine. Si passa, infatti, dalla richiesta di sostegno economico e sgravi fiscali con estensione, anche agli art workers italiani, delle misure già previste nel decreto “Cura Italia”, alla elaborazione di una Carta delle Professioni delle Arti Contemporanee  e adesione allo Statuto Sociale degli Artisti. Si chiede, inoltre, una riforma, in ottica semplificata, della normativa contrattualistica che coinvolge tale settore, sia nell’ambito del lavoro autonomo che subordinato.

AWI, dunque, si presenta come un gruppo di lavoratrici e lavoratori dalle idee chiare e forti, stanchi di vivere nell’ombra e nel silenzio.

Esiste, oltre l’apparenza di un mestiere lontano dal tempo e dalla realtà circostante, un esteso novero di persone che hanno dedicato la loro vita al lavoro che svolgono con dedizione e impegno e che, per anni – troppi anni-, hanno vissuto una condizione di invisibilità, diventata, oggi, intollerabile.

È giunto il momento, quindi, di chiedere il meritato riconoscimento, affinché quando si ritornerà alla normalità, la gente, riunita in musei, mostre e palazzetti, si ricordi del lavoro che c’è dietro e riscopra, più forte di prima, il significato della parola festa.

Ci rivediamo il primo maggio 2021, nella speranza che questo giorno diventi la festa di TUTTI i lavoratori, senza più esclusioni di sorta.