AWI: l’arte contemporanea contro la crisi Covid-19

Primo Maggio, festa dei Lavoratori. Festa, così si chiama lo stare in piazza a cantare abbracciati fino a sera, sventolando bandiere e alzando urla e cori in cortei e manifestazioni.  Eppure, oggi, se pensiamo a capannelli di gente, la prima parola che ci viene in mente non è festa, è assembramento.
Ecco che il Covid-19, da molti inizialmente considerato un virus passeggero, si palesa come un cambiamento inaspettato delle nostre abitudini, addirittura del nostro linguaggio e ci costringe, o forse è meglio dire, ci consente di ripensare le strutture sociali, culturali, normative e persino semantiche con cui abbiamo, finora, vissuto.
Un primo maggio particolare, quello targato 2020, un concerto di voci sussurrate da ogni angolo d’Italia, unite in un appello, che ancora non trova risposta: che ne sarà di noi?
La crisi Corona virus e le conseguenti misure di contenimento della pandemia hanno imposto la chiusura o sospensione della maggioranza delle attività lavorative, dando luogo a uno dei momenti più difficili della storia della economia internazionale. Per quanto gli assetti governativi abbiano cercato di aiutare i lavoratori della gran parte dei settori impiegatizi, alcuni di essi non hanno ancora ricevuto precise indicazioni sul loro futuro.

“Siamo stati i primi a smettere di lavorare e non sappiamo quando inizieremo di nuovo” si sente, sempre più spesso, quando si interpellano le lavoratrici e i lavoratori dell’arte contemporanea, i quali, per far fronte all’incertezza che li attanaglia e incentivare una soluzione equilibrata e fattiva del problema, hanno dato vita ad AWI (Art Workers Italia).
AWI è un gruppo apartitico e indipendente che riunisce, su base volontaria, gli art workers italiani, allo scopo di coinvolgere il più ampio numero possibile di specialisti del settore nella realizzazione di proposte concrete, in primis, per affrontare la crisi Covid-19 e successivamente, per dare nuova regolamentazione etico-sociale e normativa a un ambito occupazionale spesso precario, definito sulla base di contratti atipici e intermittenti, privo di enti di tutela specifica e talvolta, di compensi adeguati alle ore di lavoro impiegate. Un ambito, dunque, facile preda di sfruttatori che alimentano il fenomeno del lavoro sommerso.
Per art workers, spiega il Manifesto del gruppo (che potete trovare sul sito ufficiale http://www.artworkersitalia.it), si intendono artisti, educatori museali, mediatori culturali d’arte, allestitori di mostre, producer e tecnici del suono, tecnici dell’illuminotecnica, critici d’arte e art writer, social media manager e comunicatori, press officer e molte altre figure professionali.
Insomma, AWI cerca di unire arti visive e musicali senza tralasciare tutti quei lavoratori che, pur non potendo essere definiti artisti, gravitano attorno a tale mondo, ricoprendo ruoli indispensabili per la buona riuscita dell’intero settore.
Nel programma di AWI si può distinguere tra obiettivi a breve e a lungo termine. Si passa, infatti, dalla richiesta di sostegno economico e sgravi fiscali con estensione, anche agli art workers italiani, delle misure già previste nel decreto “Cura Italia”, alla elaborazione di una Carta delle Professioni delle Arti Contemporanee  e adesione allo Statuto Sociale degli Artisti. Si chiede, inoltre, una riforma, in ottica semplificata, della normativa contrattualistica che coinvolge tale settore, sia nell’ambito del lavoro autonomo che subordinato.

AWI, dunque, si presenta come un gruppo di lavoratrici e lavoratori dalle idee chiare e forti, stanchi di vivere nell’ombra e nel silenzio.

Esiste, oltre l’apparenza di un mestiere lontano dal tempo e dalla realtà circostante, un esteso novero di persone che hanno dedicato la loro vita al lavoro che svolgono con dedizione e impegno e che, per anni – troppi anni-, hanno vissuto una condizione di invisibilità, diventata, oggi, intollerabile.

È giunto il momento, quindi, di chiedere il meritato riconoscimento, affinché quando si ritornerà alla normalità, la gente, riunita in musei, mostre e palazzetti, si ricordi del lavoro che c’è dietro e riscopra, più forte di prima, il significato della parola festa.

Ci rivediamo il primo maggio 2021, nella speranza che questo giorno diventi la festa di TUTTI i lavoratori, senza più esclusioni di sorta.

Filippo Marcelli: l’importanza di raccontare storie e il futuro del cinema d’animazione made in Italy.

«Andiamo al bar che ieri ha nominato Giulia (ndr ZUZU)!» Mi propone il mio ospite. Accetto il consiglio e dopo una lunga passeggiata, giungo, insieme a lui, nel locale designato. Luci soffuse e musica jazz ci accolgono; ci sediamo ad uno dei tavolini decorati con ritagli di fumetti e giornali e iniziamo la nostra chiacchierata.

Filippo Marcelli, classe ’97, reatino di nascita e fiorentino d’adozione, studia disegno, cinema e fotografia all’Accademia di Belle Arti del capoluogo toscano ed è proprio tra quei banchi, che ha scoperto la passione per la stop-motion. “La Formula dell’Oro”, il corto da lui realizzato insieme ad alcuni compagni dell’Accademia, online dal 20 Ottobre sul canale YouTube di Filippo (link alla fine dell’articolo), è un prodotto tutto home-made che non smette di riscuotere successi in vari concorsi di settore, riuscendo ad arrivare in finale e il più delle volte, a vincere, nonostante il budget minimo e la preparazione ancora in erba dei ragazzi coinvolti nel progetto.

Dio e Ademo

Foto di Filippo Marcelli- Backstage di La Formula dell’Oro

«Tutto è iniziato a Novembre del primo anno di Accademia, quando delle mie compagne di corso mi proposero di creare un cortometraggio in animazione 2D in bianco e nero. Il classico cartone animato, per intenderci! Il nostro professore di pittura aveva più volte menzionato il rapporto tra dipinto e alchimia e le mie colleghe ne erano rimaste affascinate, a tal punto da voler ideare una storia che si basasse proprio sulle avventure di un alchimista. Per qualche mese lavorammo alla sceneggiatura, ma il progetto, pian piano, svanì, per poi prendere nuovamente vita, l’anno seguente, quando Davide Tito, il nostro docente di anatomia, ci propose di realizzare, oltre alle tavole tradizionali, anche dei video, di un minuto circa, usando la tecnica dello stop motion per animare disegni in 2D o attori in carne ed ossa. Fu in quell’occasione che capimmo che avremmo potuto creare un prodotto video in stop-motion e iniziammo a ragionare su una versione embrionale de “La Formula dell’Oro”, dal freudiano titolo “ES” ».

 

Ma cosa si intende per stop-motion?

«La stop-motion è semplicemente una tecnica di ripresa» mi spiega Filippo. «Consiste nel fare una serie di foto consecutive ad una scena che, tra uno scatto a l’altro, viene modificata. La successione di questi fotogrammi realizza il video. Questo, ovviamente, accade anche nel cinema tradizionale, ma in quel caso i frame si susseguono automaticamente; qui, invece, l’obiettivo è dar luogo a movimenti altrimenti impossibili, come avviene in una nota pubblicità in cui le camicie si piegano da sole. Nei grandi film, per anni, la stop-motion è stata utilizzata per realizzare gli effetti speciali. In “Godzilla”, per esempio, la puppet animation, ossia l’animazione di pupazzi, ha reso possibile la creazione di personaggi che apparissero giganteschi, in grado di distruggere intere città, dando vita a situazioni che, altrimenti, sarebbero state inattuabili.»

«Con “La Formula dell’Oro”, invece, io e i miei compagni abbiamo scelto di produrre qualcosa che assomigliasse di più al grande cinema di animazione, utilizzando, per l’appunto, pupazzi con armatura e scenografie realistiche, al fine di ricostruire un impianto cinematografico tradizionale. Gli ambienti del corto e la traccia della storia erano già stati stabiliti nel canovaccio stilato precedentemente, ma si è reso necessario riprendere in mano la sceneggiatura, scriverla da capo e soprattutto, assegnare a ognuno della troupe il proprio ruolo, sulla base degli interessi particolari nutriti da ciascuno di noi. Così, io ho iniziato a occuparmi di regia, illuminazione dei set, montaggio e postproduzione; Francesca Sofia Rosso delle scenografie; Daniel “Tomo” Carrai e Eugenio Frosali della creazione del pupazzo e della sua armatura, inoltre, sempre Eugenio ha realizzato le animazioni in 2D e infine, Tomo e Francesca, insieme a Martina Generali e Cecilia Capelli, hanno dato vita alle animazioni in stop-motion. In ultimo, un ringraziamento speciale va a Lorenzo Di Cola che ha composto tutte le musiche del corto».

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Foto di Filippo Marcelli- Backstage, Creazione del set

Vedendo il lavoro ultimato, “La Formula dell’Oro” appare tutt’altro che un progetto a basso budget, eppure Filippo non nasconde che i set sono stati allestiti in camera sua e in quella dell’allora coinquilina Francesca. Narra, anzi, di una stanza invasa da attrezzature, ridotta ad un letto e al poco spazio necessario per entrare e uscire dall’abitacolo; poi, mi sciorina tutti i materiali usati per la costruzione dei set e per l’armatura di Nemo, il vecchio, barbuto alchimista, protagonista del corto.

 

«Abbiamo costruito il pupazzo praticamente da zero. L’armatura è stata fatta da Tomo, utilizzando una base di ferro, imbottita con garza e fogli di lattice, sulla quale è stato direttamente applicato il vestito cucito da Cecilia. Io ho solo aggiunto la barba, fatta coi baffi finti comprati da Tiger. Per le mani, invece, Eugenio ha creato uno stampo, nel quale è stato colato del lattice prevulcanizzato» racconta. «Una piccola curiosità, inoltre, riguarda il volto di Nemo. Per costruire la faccia di un puppet, di solito, si usano centinaia di varianti della stessa maschera, la quale è, a sua volta, divisa in pezzettini che possono essere combinati tra loro in più modi, per permettere al pupazzo di cambiare espressione. Per fare ciò, però, serve una stampante 3D precisissima, dal valore di circa duemila euro. Capirai che non avremmo mai potuto permettici niente di simile, quindi, abbiamo ovviato al problema digitalmente: Eugenio ha interpretato alcune delle espressioni di Nemo e in postproduzione, io le ho sovrapposte al puppet, realizzando l’animazione facciale di cui avevamo bisogno».

Marti bluffa

Foto di Filippo Marcelli – Backstage, creazione del set

«Per quanto riguarda i set, invece, ti posso dire che solo nello studio dell’alchimista c’erano circa 826 libretti realizzati in miniatura, uno ad uno. In primis, abbiamo creato le grafiche delle copertine a computer e le abbiamo stampate su carta opaca, infine, le abbiamo incollate su dei pezzi di cartone. Paradossalmente, se comparati al loro reale utilizzo, i libri sono stati, forse, l’oggetto più costoso che abbiamo creato. Gli atri elementi del set sono stati fatti con un materiale simile al fimo; li abbiamo scolpiti, cotti al forno e successivamente decorati con colori acrilici. In totale, abbiamo realizzato più di 100 oggetti di scena e anche i mobili sono stati fatti da noi, tagliando delle tavole di compensato» mi spiega Filippo e ne parla con una tranquillità tale da farlo apparire un lavoro del tutto ordinario per sei giovanissimi artisti come loro.

Altro elemento che colpisce è dato dalle colonne sonore. Imprescindibile, infatti, è l’accostamento tra immagini e musica, necessario soprattutto nei cortometraggi, per riuscire a condensare, in pochi minuti, sensazioni che altrimenti resterebbero inespresse o solo vagamente accennate. «La musica è stata fondamentale per noi, soprattutto perché il nostro protagonista non proferisce parola per tutta la durata del film. Abbiamo deciso di lasciarlo in silenzio per questioni pratiche. Ci siamo resi conto che non è possibile improvvisarsi né sceneggiatori né doppiatori e che nessuno di noi era in grado di assolvere a compiti simili. Se noi stessi avessimo dato voce a Nemo, probabilmente, sarebbe venuta parzialmente meno la credibilità e la riuscita del prodotto finale» ammette Filippo, poi prosegue: «Credo che la colonna sonora costituisca il 70% della riuscita di un film; per questo, ho contattato Lorenzo, un ragazzo aquilano che studia a Milano, affinché ci aiutasse nell’impresa. Lui non aveva mai composto musiche per cortometraggi, per cui è stato necessario un lungo confronto prima di capire quale mood volessimo dare alle singole melodie. Volevamo che il suono accompagnasse quello che le immagini, da sole, non potevano dire, senza mai anticipare nulla; che procedesse di pari passo allo scorrere delle figure, aiutando lo spettatore a empatizzare maggiormente con la storia e i personaggi.»

Schiaccianemo

Foto di Filippo Marcelli – Backstage di La Formula dell’Oro

Nonostante l’assenza di dialoghi,  “La Formula dell’Oro” porta con sé un messaggio ben preciso, esplicitato non solo dal saldo accostamento frame-suono, ma soprattutto delle frasi che anticipano le scene iniziali del lavoro. «Abbiamo deciso di inserire una sorta di prologo proprio per far sì che il corto arrivasse ad una rosa più ampia possibile di persone. Inizialmente, abbiamo fatto vedere il prodotto senza titoli di testa e in molti hanno palesato difficoltà nel comprenderne il significato; perciò, abbiamo iniziato a renderci conto che se avessimo voluto creare un film per tutti, avremmo dovuto noi stessi fornire gli strumenti necessari a renderlo accessibile a tutti, almeno nel suo significato generale. Ovviamente, per noi creatori esiste un significato ben più specifico, in cui sappiamo riconoscere e dare collocazione e nome a ciascuno dei personaggi, ma abbiamo sempre saputo che sarebbe stato difficile trasmetterlo nella sua totalità al pubblico. Ci è piaciuto, quindi, lasciare più alternative allo spettatore, ciascuna diversa eppure ognuna con lo stesso messaggio finale, ossia che, talvolta, è necessario lasciarsi qualcosa alle spalle, forse perdersi, per ritrovarsi e proseguire al meglio il proprio cammino. In fondo, è anche per questo che abbiamo voluto che il protagonista si chiamasse Nemo

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Foto di Filippo Marcelli – Backstage di La Formula dell’Oro

Finalmente, la mia curiosità sul nome dell’alchimista viene soddisfatta. «Come si può immaginare, il nome deriva anche, ma non solo, dal film “Alla ricerca di Nemo”. Da una parte, volevamo che si cogliesse un legame tra la storia di un padre che perde suo figlio e quella del nostro vecchietto che perde se stesso ed è costretto a ritrovare la sua vera identità e con essa, importanti pezzi del suo passato, compreso il rapporto col padre -che rivede nella scena delle pitture rupestri-. Dall’altra, abbiamo cercato di non personificare troppo il nostro personaggio e dal momento che nemo, in latino, significa nessuno, la storia di nessuno, per converso, è una storia in cui tutti possono rivedersi».

Nulla, quindi, viene lasciato al caso, nemmeno i più piccoli dettagli e non mancano le easter-egg, che i ragazzi hanno disseminato in lungo e in largo: «Lo studio è pieno di sorprese! Se aguzzate la vista scorgerete da Blade Runner” -di cui abbiamo riprodotto anche l’unicorno- ai Pink Floyd, fino ad arrivare a La Cosa” e ovviamente, lo stesso DVD di Alla ricerca di Nemo”. Ognuno di loro ha un significato legato a noi e al corto stesso. Per esempio, una delle easter-egg più evidenti è “Cuore di Tenebra” di Conrad, un libro che riprende il tema del viaggio e della ricerca di sé, che abbiamo, non a caso, deciso di collocare in una scena, per noi, molto significativa».

Dunque, per quanto sia partito da premesse quasi amatoriali, il lavoro di Filippo Marcelli e dei suoi colleghi è dettagliato, fine e appassionato come solo i più giovani sanno essere e apre le porte a progetti futuri, grazie ai quali l’industria cinematografica italiana potrebbe affermarsi in ambiti filmici ancora piuttosto trascurati nella nostra nazione.

Nemo nell'oceano

Tratto dal cortometraggio in stop-motion La Formula dell’Oro

«La mia aspirazione è quella di fare animazione in stop-motion rimanendo in Italia, magari creando uno studio di animazione sul modello di quelli internazionali. Al momento, le produzioni di questo genere sono quasi sempre straniere, per cui incrementare la creazione di film d’animazione tutti made in Italy costituirebbe, per me, una vittoria enorme. Grazie all’esperienza vissuta con “La Formula dell’Oro”, posso dire che ho avuto prova dell’enorme voglia di sperimentare delle nuove generazioni di addetti ai lavori e posso testimoniare che, in Italia, non mancano figure professionali specializzate, capaci di risollevare le sorti del nostro cinema d’animazione.» sostiene Filippo. «È pur vero, però, che se ti dicessi che voglio occuparmi solo di animazione, ti mentirei. Più di tutto, ciò che mi interessa sono le storie. Se trovo una tematica che mi soddisfa,  mi piace darle spazio tramite cinema, fotografia e disegno» precisa, in seguito. «Sono alla continua ricerca di storie e molte ne ho trovate nel mio viaggio in India. Qualche mese fa, infatti, ho avuto la possibilità di trascorrere 16 giorni nella regione del Gujarat, dove ho accompagnato il mio amico fotografo, Jordi Ferrando I Arrufat, che stava completando delle ricerche per la sua foto-inchiesta su ciò che rimane del gandhismo nella patria del suo fondatore, Gandhi. La cosa più stupefacente di questo viaggio, però, l’ho scoperta solo una volta tornato a casa: lì, mi sono accorto che quello che, per me, doveva essere un esercizio per riprendere a scattare come fotoreporter, si è tramutato in un’esperienza unica, in cui ho potuto toccare con mano una realtà variegata e lontanissima dai costumi occidentali, un’esperienza che ha dato luogo ad un inaspettato effluvio di pensieri, che ho messo per iscritto e conto di pubblicare, insieme ai miei scatti, all’interno di un libro fotografico» chiosa, dandomi l’assist per l’ultima domanda.

Primo Piano Nemo

Nemo

Qual è la prossima storia che vuoi raccontare?

Quando glielo chiedo, sorridendo, mi risponde così: «Ovviamente, “Blade Runner 2079” … Scherzo, anche se sarebbe bellissimo. Però, posso dirti che vorrei mettere le mie capacità a servizio di temi legati all’attualità. L’urgenza che sento, in questo momento, è quella di parlare del concetto di sdegno, che pervade i discorsi quotidiani di molti di noi e dei nostri politici, che è terreno fertile per violenza e odio razziale e di genere, che è tutto ciò che ci fa puntare il dito su qualcosa, senza cambiarla mai per davvero. Ecco, questa sarebbe una storia interessante da raccontare!» esclama, in conclusione.

Oramai, il suo ginseng e la mia cedrata sono solo un vago ricordo, depositato sul fondo del vasellame che abbiamo davanti. Paghiamo il conto e ci apprestiamo ad andar via. Sul tavolino, bustine di zucchero, briciole di patatine e la consapevolezza che sentiremo presto parlare di Filippo Marcelli e delle sue storie, tutte da raccontare.

Per sostenere Filippo Marcelli e il corto, “La Formula dell’Oro”, ecco alcuni link utili:

YouTube: Filippo Marcelli

La Formula dell’Oro:   clicca qui

Instagram: @steeely_laformuladelloro

Acquista le T-shirt del corto, scrivendo alla pagina Instagram: @cantiere_grafico

Partecipa al sondaggio sul Cinema d’Animazione, redatto da Filippo: clicca qui

L’autoanalisi illustrata di ZUZU: il fumetto e la bellezza

L’idea di intendere perfettamente qualcuno, senza averlo mai realmente conosciuto, pare essere una delle invenzioni più melense che i film romantici hollywoodiani ci abbiano regalato, una finzione narrativa capace di farci credere in legami ancestrali e indissolubili. Almeno, così ho sempre pensato, finché non ho incontrato Giulia Spagnulo, in arte ZUZU, una giovane illustratrice con cui ho avuto modo di discutere di temi che stanno a cuore a entrambe, ritrovandola più simile a me del previsto.

Ecco, Giulia mi ha fatto ricredere sui film americani. Intervistarla, per me, è stato come rileggere un libro, divorato anni prima e mai dimenticato del tutto, è stato come ricevere una serie di -belle- conferme, un insieme di risposte (a domande, forse, scontate) di cui avevo non il semplice presentimento, ma la quasi assoluta certezza. Più che conoscerla, mi è sembrato di riconoscerla, calandola perfettamente nelle sue opere. Un pensiero nitido e controcorrente, quello di ZUZU, che è emerso con chiarezza, durante la nostra lunga chiacchierata pomeridiana, tra colpi di tosse e sorsi di vino.

Imprinting è il termine che più esattamente racchiude non solo il mio incontro con Giulia, ma anche il suo con il mondo del fumetto. “In realtà è stata una scelta abbastanza impulsiva.” Racconta, “Fin da piccola, ho avuto la passione per il disegno, ma ad una carriera simile proprio non ci pensavo.” Mi spiega, quando le chiedo come tutto abbia avuto inizio. “Avevo diciassette anni, ero all’ultimo anno del liceo classico e mi trovavo in un bar con degli amici. Hai presente quelli che danno al cliente la possibilità di leggere libri e fumetti? Ecco, ero lì e non avevo mai letto un fumetto nella mia vita, quando mi è capitato tra le mani La mia vita disegnata male di Gipi (n.d.r. tenete bene a mente questo nome, tornerà tra qualche riga, in modo inaspettato e assurdo). Ovviamente, non conoscevo l’autore, ma il titolo e i disegni mi parevano interessanti, quindi, nonostante fossi in compagnia, l’ho iniziato a leggere e l’ho terminato quello stesso giorno, in quello stesso bar. È stato lì che mi sono detta: è questo che voglio fare da grande! Non c’è nulla che mi darebbe più soddisfazione nella vita. Da lì è nato tutto, da quel desiderio di raccontare storie.

Continua e non può fare a meno di sottolineare quanto l’aiuto economico e prima ancora, morale datole dai genitori, soprattutto da sua madre, sia stato fondamentale per la realizzazione del suo progetto di vita. “Naturalmente, il solo desiderio di comunicare tramite disegni non basta, per questo mi sono messa a cercare un percorso di studi, successivo al liceo, che mi permettesse di fare ciò che avevo in mente. Il paradosso è che è stata mia madre a trovarlo. Io avevo escluso fin da subito l’idea di frequentare il corso Illustrazione allo IED di Roma, essendo  questa una università privata, invece mia madre mi ha spinto a farlo, sostenendo che quello sarebbe stato il percorso più interessante per ciò che volevo realizzare e che avrei trovato i migliori professori in materia. E così è stato.”

Dalle sue parole, oltre all’immensa gratitudine nei confronti di chi ha creduto in lei fin dal primo istante, traspare una grande coerenza e precisione. Una chiarezza emotiva e interpretativa che è difficile trovare in giro, soprattutto se pensiamo che la nostra interlocutrice è nata solo nel 1996. Le regole narrative e visive che segue e distrugge nelle sue opere ci vengono presto spiegate: “Il mio stile non è un dono divino!” ammette subito, “È  frutto di lavoro, osservazione, conoscenza. È tutto sempre frutto di grande lavoro, quando si tratta di fumetti. Non credo che nessuno di noi, in questo ambito, abbia inventato nulla. Tutti rubiamo qualche forma, qualche gioco cromatico dai nostri artisti preferiti. È questo che mi ha insegnato lo IED e che più ho apprezzato del mio percorso formativo: abbiamo appreso stili, linee e colori, abbiamo studiato gli artisti del passato e i loro pensieri, i linguaggi visivi e le loro espressioni e poi, a differenza di quanto accade  solitamente nelle Accademie, abbiamo distrutto e rielaborato tutto, alla luce di ciò in cui ci riconoscevamo maggiormente.”

Un percorso soggettivo e intenso, quello degli illustratori come ZUZU, che parte dall’esterno per arrivare al cuore dell’artista, una strada, quella percorsa da Giulia, che si costruisce e decostruisce in un gioco di continui riferimenti e innovazioni. “Inutile dire che le mie ispirazioni maggiori sono state l’espressionismo tedesco, ma anche e soprattutto autori contemporanei come Jesse Jacobs, Gipi, da cui è partito tutto e tantissimi altri. Quando vuoi disegnare fumetti,  l’importante” chiarisce “non è il curriculum che hai, i voti dei tuoi esami o quello con cui ti laurei, l’importante è avere uno stile preciso e riconoscibile, che possa essere apprezzato dal pubblico e dagli editori.”

A proposito di stile, non si può certo dire che quello di Giulia non sia uno dei più facili da identificare. I suoi personaggi sembrano contorcersi sullo sfondo della pagina ipercolorata, piegarsi in forme articolate e in gesti così mollemente umani da risultare innaturali. Impossibile non chiederle, dunque, qualcosa in più su come abbia fatto ad arrivare a una concezione di bellezza così fiera ed altra da ciò che si vede in giro. Se pensiamo, infatti, a uno dei fumettisti italiani più famosi come Milo Manara e alle sue donne meravigliose e voluttuose o a chi si è da poco affacciato al mondo del fumetto, sfruttando i social come piattaforma interattiva per costruirsi un pubblico vasto e fedele, come Il Baffo e ai suoi soggetti blu, onirici, dalla bellezza che, pur essendo moderna, rasenta la perfezione, è evidente il discrimine segnato dalle creature disegnate da ZUZU, lontane dai canoni della tradizione, dalle proporzioni classicamente conosciute e ideate per fluttuare a mezz’aria in nuvole di caotici pensieri senza filtri né censure, spesso nude come vermi, per inneggiarne l’intrinseca vulnerabilità.

“Per quanto riguarda il concetto di bellezza e la mia scelta stilistica lontana dal classicismo, anche questa non è una scelta né del tutto naturale né completamente artificiosa. Diciamo che quello che faccio per me è molto bello, ma non perché io mi abbia grande stima di ciò che disegno e lo trovi eccezionale, ma perché è frutto di una precisa ricerca del bello. Anche se dai miei disegni sembra che prevalga il contrario, l’osceno, le figure spaventose e grottesche, io, in queste forme e anatomie, trovo la bellezza.” Confessa l’artista. “Per esempio, i nasi. Ecco, tanta gente, spesso, mi fa notare che i nasi che faccio sono strani, buffi, molto pronunciati e atipici. Questo nasce dal fatto, credo, che noi disegnatori, in fondo  in fondo, disegniamo sempre noi stessi, tendiamo sempre a farci un ritratto, anche se raffiguriamo qualcun altro o inventiamo un personaggio di sana pianta. Poiché, fin da piccola, ho avuto una sorta di complesso per il mio naso pronunciato e i miei occhi grandi, trasporto queste caratteristiche sui miei personaggi. Per quanto riguarda, invece, il resto del corpo, penso che, accentuando un piede o una gamba o le braccia e allungando o riducendo parti del corpo che dovrebbero essere più corte o più lunghe, io possa trasmettere  dei messaggi. È come se queste deformazioni parlassero per quell’individuo e dicessero qualcosa in più di lui, di ciò che fa e come lo fa, dando un’idea di confusione, rigidità, forza o debolezza. Dato che non sono foto e non si tratta di soggetti reali, ho la libertà di trasformare il mio personaggio a mio vantaggio: per me, anche il braccio, girato in senso opposto a come dovrebbe, o il ginocchio, che si trova in un posto in cui non dovrebbe anatomicamente collocarsi, raccontano una storia.”

Insomma, una narrazione a 360°, nascosta anche nei minimi dettagli delle tavole di ZUZU, che apre ad una riflessione maggiore sul concetto di bellezza in campo artistico e sociale. “Se nell’arte si è liberi di fare ciò che si vuole e non ritengo che la mia opera possa, né sia in grado, di sdoganare un concetto di accettazione di sé e delle proprie imperfezioni, è possibile che le mie illustrazioni siano di spunto per cambiare i rigidi parametri attorno ai quasi si avviluppa il concetto di bellezza socialmente riconosciuto e accettato.” Mi confessa, sottolineando che “attraverso il disegno e l’arte in genere, noi possiamo aiutare a comprendere che il bello non è da incasellare, ma da scovare. È bello ciò che fa riflettere e mettere in discussione i propri punti di vista, fino al punto di aprire conflitti. La bellezza è arte e l’arte non è mai unidirezionale o canonica. L’arte ti stupisce continuamente e così dovrebbe fare la bellezza. Forse, ci siamo dimenticati che quest’opera di destrutturazione dei canoni di bellezza, l’arte la compie da anni. Allora, probabilmente, dovremmo guardare alla bellezza, per così dire, sociale con la stessa libertà con cui si interpreta e trasforma la bellezza artistica.”

La libertà di cui parla Giulia è ben visibile nei suoi lavori, alcuni dei quali affrontano tematiche molto simili a quelle che ha indagato la fotografa Chiara Lombardi nel suo lavoro Cam4Shots (di cui abbiamo parlato qui) ed è proprio per questo che le due artiste si sono trovate a collaborare alla fanzine elaborata da Chiara durante il suo progetto. Due dei temi, quindi, che non potevano non essere trattati sono quelli della sessualità e del femminismo.

ZUZU ne parla così: “Come ho detto, l’arte è libertà e sarei stupida a non sfruttare questo mezzo per esprimere me stessa appieno, nonostante io abbia ancora alcune remore, che mi impegno quotidianamente ad abbattere. Per quanto riguarda la sessualità, molti dei miei lavori più che di sesso parlano di corpi e forme e credo sia necessario fare una precisazione: tutto può essere interpretato nell’ottica della sessualità, dalle persone agli oggetti inanimati, così come un corpo nudo può essere semplicemente un nudo, avulso dalla sfera sessuale e non c’è assolutamente nulla di sbagliato in nessuna delle due cose. Altra situazione ancora è la volgarità, che non va confusa coi due ambiti precedenti. Abbiamo, a tutt’oggi, problemi a fare queste distinzioni, ma non è nemmeno del tutto colpa nostra, dal momento che, fin da piccoli, siamo soggetti a dei pregiudizi e a dei ragionamenti che ci inculcano da sempre, ma che, magari, col tempo e con molta onestà intellettuale, scopriamo che non ci appartengono davvero.”

Ovviamente l’interesse a un tema simile non può che nascere da un forte bisogno ed è qui che l’animo femminista di Giulia si affaccia con tenacia. “Parlare di sessualità e nudi è fondamentale per me, poiché mi consente di ribadire l’importanza che la donna dovrebbe avere nella nostra società. Nonostante sia il 2018, spesso, devo pedantemente ripetere concetti basilari, come il fatto che la donna sia un essere umano e in quanto tale libera di esprimersi, vestirsi e comportarsi come preferisce, sempre, chiaramente, nel rispetto degli altri.

Talvolta, su Instagram, mi capita di postare disegni che, per alcuni, possono sembrare osceni o mie foto senza veli. Io li trovo necessari a ribadire i concetti di libertà di espressione e di parità, non vedo nulla di negativo nei miei post e devo dire che anche la mia community di riferimento, tranne in alcuni rari casi, si è sempre dimostrata di grande supporto nei miei confronti, forse, perché proprio il mio stile non convenzionale e lontano dai canoni estetici, a cui siamo abituati, tiene lontani i buzzurri dalle mie pagine e lascia solo coloro i quali siano davvero interessati all’arte e alle mie opere.” Sostiene, infine, con una certa fierezza, che si trasforma rapidamente in minima incertezza quando le chiedo la luna, ossia di condensare il messaggio del suo lavoro in poche, semplici parole.

“È davvero una domanda difficile!” ammette, poi, però, le basta riflettere qualche secondo per addivenire a questa conclusione: “Uhm, credo che più che il messaggio, il fine delle mie illustrazioni sia terapeutico. Partiamo dal fatto che mio padre è psichiatra e mia madre psicologa, quindi quello della terapia è un campo che non ho avuto difficoltà ad incontrare nella mia vita.”

 

SALUTEMENTALE

Illustrazione di ZUZU per la Giornata Mondiale della Salute Mentale

“Diciamo che i miei disegni mi aiutano a esprimere chi sono, quali sono i miei pensieri e le mie emozioni, sono una sorta di autoanalisi, a cui mi sottopongo, quando, oramai, le situazioni di cui parlo sono superate, quando mi sono distaccata abbastanza dal fatto concreto, tanto da poterlo sviscerare con chiarezza e poi vomitarlo sul foglio così come la mia analisi mi porta a fare.” Si ferma un attimo e alla fine afferma soddisfatta: “Se questa è la finalità con la quale opero, il messaggio potrebbe essere quello di comunicare apertamente con i lettori, con gli altri. In loro è la soluzione, la chiave di tutto. Un po’ come accade nel mio fumetto.”

Giulia, infatti, sta per pubblicare Cheese, la sua opera prima, che uscirà a marzo per la casa editrice Coconino Press, sul tema dei disturbi alimentari, un altro argomento a cui tiene molto, dal momento che ella stessa ha vissuto sulla sua pelle cosa significhi essere affetta da una problematica simile. “La storia è buffa e molto semplice.” dice, ridacchiando, “una ragazza che soffre di disturbi alimentari –che poi sarei io- insieme a due sue amici decide di partecipare ad una gara di formaggio rotolante, che è uno sport realmente esistente, che si pratica in Galles e in Italia, a Brentonico. La competizione consiste nel far cadere una forma di formaggio da un monte e chi dei concorrenti, rotolando, la prende per primo, vince. Quello della gara è, naturalmente, solo un espediente narrativo per raccontare le storie dei personaggi e far evolvere la protagonista, al fine di aiutarla nel suo percorso di guarigione. Ecco perché, ti dicevo, è terapeutico disegnare: perché mi permette di affrontare il mio passato, la mia storia, di fare una somma di quello che mi è successo, sdrammatizzandolo, ma lanciando comunque un messaggio a chi si trovi o si sia trovato al mio posto.”

La parola imprinting torna nella vita di Giulia, proprio nel momento più importante della vita di uno studente universitario, infatti, mi spiega: “La cosa divertente, però, non è tanto il fumetto, ma il modo, del tutto spontaneo, in cui è nato. In pratica, allo IED, come tesi di laurea bisogna presentare un prodotto editorialmente finito di qualsiasi tipo, ovviamente io, partendo dall’idea di voler fare un fumetto, mi sono detta che quella sarebbe stata la mia occasione e così ho presentato questo lavoro in sede di laurea. E proprio lì, il giorno della laurea, dopo aver esposto il mio lavoro, il mio relatore di tesi Francesco D’Erminio, in arte Ratigher, che da poco era diventato editore della Coconino Press, mi ha messo una mano gelida sulla spalla e mi ha detto Lo pubblichiamo! Per me è stato un momento di gioia inspiegabile, il giorno più bello della mia vita!” Esclama ancora un po’ commossa e aggiunge: “E vuoi sapere qual è la cosa ancora più assurda?  Il mio supervisore adesso è proprio Gipi, colui che mi ha fatto scoprire il mondo del fumetto e senza il quale, forse, la mia vita avrebbe preso una piega completamente diversa!”

Una serie di fortunate e -aggiungerei- meritate coincidenze, che hanno portato ZUZU ad essere una delle giovani firme della Coconino Press, pronta a fare la sua entrata ufficiale sul palcoscenico dei fumettisti italiani contemporanei. Un mix esplosivo di voglia di raccontare e raccontarsi tramite forme scomposte e grottesche, pensieri schietti e un’incontenibile energia creativa. Un concentrato di emozioni che potrete presto leggere in formato cartaceo, ma che, già da subito, potete ammirare nelle varie fiere che ospiteranno le sue opere in tutta Italia e sulla sua pagina ufficiale di Instagram (@sono.zuzu)e Facebook , dove avrete anche la possibilità di acquistare o commissionare stampe e disegni inediti.

Buona fortuna, quindi, a Giulia Spagnulo, in arte ZUZU, per il suo futuro e -le auguriamo- roseo percorso di autoanalisi illustrata!

 

Cam4Shots – Alla ricerca dell’umano con Chiara Lombardi

Siamo abituati a guardare solo il lato patinato delle cose, in realtà sotto c’è molto altro

Così si conclude l’ultima delle note vocali inviatemi in questi giorni da una giovane fotografa salernitana, Chiara Lombardi, in risposta ad una lunga serie di domande che ho avuto la possibilità di porle, con l’intenzione di comprendere meglio il suo ultimo progetto artistico, dal nome Cam4Shots.

Chiara ed io ci siamo conosciute più di sei anni fa e abbiamo iniziato percorsi completamente diversi alla ricerca della nostra vera vocazione -che io ancora stento a trovare-. Entrambe siamo finite a fare cose in cui abbiamo riposto tutte le nostre speranze, altre in cui non credevamo affatto, a mangiare dai peggiori paninari romani, sorprendendoci di non aver scovato nemmeno un pelo nel mostro sandwich, a guardarci negli occhi e dirci “Non mi piaccio, non mi piace quello che vedo, non so dove voglio andare, ma so che non voglio restare qui”. Ho avuto il piacere di accompagnare Chiara per una buona parte del suo già avviato percorso artistico ed oggi, a distanza di quei sei famosi anni, ho l’onore di intervistarla per la prima volta e averla come pietra miliare di una raccolta di interviste e articoli, ancora in fieri, su un argomento che negli ultimi tempi ha iniziato a starmi sempre più a cuore: la bellezza.

Cos’è la bellezza? Cosa significa per noi sentirci belli, stare bene con noi stessi? Domande vecchie quanto il mondo a cui l’arte, la moda, la società hanno cercato di rispondere proponendoci canoni che, a volte, hanno resistito al passare del tempo, mentre, altre volte, sono riusciti ad impressionarci per poco più di un annetto, per poi svanire completamente nel nulla.

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Tell me your secrets- foto di Chiara Lombardi

“Il percorso che cerco di affrontare col mio lavoro è un percorso di ricerca del bello”, mi dice la fotografa classe ’95, parlandomi di Cam4Shots. “Già prima di arrivare a questo progetto, la mia ricerca artistica ha sempre avuto come tematica i corpi, le forme, gli intrecci e gli incastri e tutto è partito da me, dal mio bisogno di accettarmi.” mi confessa successivamente. È una storia che le ho già sentito raccontare, ma che mi emoziona ogni volta, quindi, la lascio proseguire. “Da quando ho capito che tramite la fotografia avrei avuto la possibilità di dire delle cose e impararne delle altre, ho sentito il bisogno di approcciarmi a tale mezzo personalmente. Anche solo per esercitazione o semplicemente per sfogarmi, mettevo la macchina sul cavalletto e mi fotografavo. E non lo facevo per scoprire il modo migliore per esporre i soggetti alla luce o per studiarne ogni singolo artificio compositivo, io ne avevo bisogno. Avevo bisogno di ritrarmi perché quando mi guardavo allo specchio non mi riconoscevo, vedevo solo un ammasso di carne orribile e non mi piaceva. La mia femminilità e il mio riconoscermi pienamente come donna erano del tutto celati e per disvelarli quelle ore, passate davanti alla macchina fotografica ad essere soggetto di me stessa, sono state fondamentali”.

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Ascolto le sue parole e vi rivedo molto di me stessa. Accettarsi per ciò che si è è un lungo processo di autoanalisi, di comprensione e prima ancora, di conoscenza di se stessi e di tutte le proprie anche minime imperfezioni. La capisco e talvolta, osservandola, vedo ancora, in qualche suo sguardo, quella ragazza timida e impacciata che si immagina come un elefante in una cristalleria, senza rendersi conto della sua bellezza.

Siamo simili io e Chiara, non solo per il nome che ci accomuna e per i panini dallo zozzone di turno, ma soprattutto perché abbiamo perso molto del nostro tempo a calarci in modelli che evidentemente non ci appartenevano, nella vana speranza che, un giorno, vi saremmo state almeno rassomiglianti. Eppure, da questo errore di gioventù nessuno sembra essere immune, tanto che Chiara stessa mi racconta di quanto il suo lavoro abbia aiutato non solo la sua autostima, ma anche quella delle persone che con lei si sono trovate a collaborare. “Poco tempo fa ho scattato delle foto ad una ragazza bellissima e non ho potuto fare a meno di dirle quanto il suo corpo fosse statuario e perfetto, mi sembrava davvero di fotografare una dea greca!” esclama, “Ma lei mi ha guardato incredula, dicendomi che, in realtà, si è sempre vista poco conforme all’ideale moderno di bellezza e si è sempre considerata goffa. Sono queste piccole cose che mi fanno rendere conto di quanto la mia opera possa aiutare i miei soggetti oltre che me.” poi aggiunge “Alla fine di tutto, sono quasi felice di vedere che abbiamo tutti gli stessi problemi, anche le persone che non ti aspetteresti!”.

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Shuan – foto di Chiara Lombardi

Nella sua ricerca di semplicità, naturalezza e imperfezione, Chiara si è approcciata spesso a nudi, ma mai con l’immediatezza che troviamo in Cam4Shots, una serie di screenshot di immagini prese da un sito dichiaratamente pornografico, CAM4.com e rielaborate alla luce dell’esigenza artistica della fotografa. Un progetto che, oltre ad essere caratterizzato dall’eterno amore per la veridicità e l’umanità, mi è apparso quasi enigmatico al principio, come una sorta di rebus, a cui non ogni fruitore, a cui Chiara si è approcciata negli anni passati, ha saputo dare un senso. È per questo che l’artista stessa ha deciso di pubblicare un breve manifesto esplicativo della sua opera.

“Senza voler togliere poeticità al momento creativo, devo ammettere che, in realtà, Cam4Shots nasce come bisogno di rispondere ad una richiesta di un mio professore” mi confessa. Chiara, infatti, continua i suoi studi di arte fotografica all’Accademia Albertina di Torino, dopo essersi laureata a pinei voti alla RUFA, altrettanto famosa accademia romana. “Per superare quest’esame, dovevamo presentare un elaborato esemplificativo del concetto di arte applicata alle nuove tecnologie. Così, mi sono ispirata agli scatti di Jon Rafman, un artista e regista canadese che, nella sua opera 9-Eyes ha ricercato ed esposto una serie di immagini trovate su Google Street View, che rappresentassero delle situazioni di vita quotidiana particolari o addirittura assurde.”

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HWAL – foto di Chiara Lombardi

“Sulla base del progetto del canadese è nata tutta una querelle sul poter considerare anche questa una forma d’arte o meno, visto che Rafman aveva semplicemente preso delle situazioni già avvenute nella vita reale, senza modificarle in alcun modo e senza, così, decidere aprioristicamente, cosa ritrarre nel suo lavoro.” mi spiega brevemente l’artista. “Una volta compreso che anche quella ricerca e distinzione tra i materiali utili e quelli da scartare è arte (così come lo è un reportage), mi son detta di voler fare lo stesso e da qui è nato Cam4Shots.” Racconta Chiara, ma subito sottolinea come tale processo  sia stato mediato da una serie di tentativi non andati in porto, come quelli di fotografare spezzoni di filmati di telecamere di sorveglianza, idea accantonata perché insoddisfacente da un punto di vista artistico (a causa della cattiva risoluzione delle immagini) e umano (perno su cui l’opera della Lombardi necessita di focalizzarsi). “Cam4Shots, quindi, è una raccolta di foto, fatte dal mio pc, al sito Cam4. Sì, è un sito pornografico e viene presentato in quanto tale, ma il mio approccio ad esso è stato così puro da non riuscire più a vedere in quella nudità un qualcosa di oggettivo e voluttuoso, che potesse essere usato semplicemente per dare piacere al fruitore. Nella home di Cam4 ci sono una ventina di live tra cui scegliere e cliccando su di esse, si viene catapultati nella stanza, da cui il cosiddetto performer si esibisce. Le tematiche maggiormente visibili sono, senza dubbio, quelle inferenti la sfera sessuale, ma quello che ho voluto fare è stato rintracciare in quei momenti di vita vera un particolare, una composizione, un incastro tale da catturare la mia attenzione. Così, ho proceduto a fare lo screenshot e poi a ritagliare ulteriormente l’immagine, in modo che tutte le foto risultanti fossero focalizzate solo su ciò che per me era importante e riuscissero a fuoriuscire dal loro habitat pornografico per entrare in un ambito umano, sincero, semplice e soprattutto puro”.

Dopo aver raccolto circa 50 foto, Chiara è pronta a continuare il suo percorso con Cam4Shots e a collaborare con altri artisti nella creazione di una zine no profit. Come vive questa collaborazione è presto detto. “Sarò molto selettiva: non voglio immagini forti, non voglio violenza, non voglio pornografia. Ho intenzione di continuare il mio progetto con la stessa spinta con cui l’ho iniziato, ossia ponendomi davanti al corpo nudo e ipersessualizzato con l’occhio clinico di un chirurgo davanti al paziente nudo sul tavolo operatorio” sottolinea con tenacia. “Non ho mai visto quei corpi come un oggetto del desiderio, ma solo come motivo di studio di quella realtà che voglio portare alla luce con le mie foto.”

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Cam4Shots – foto di Chiara Lombardi

Infatti, come si legge chiaramente nel manifesto introduttivo a Cam4Shots, la realtà che Chiara Lombardi vuole portare a galla è quella con cui tutti noi ci confrontiamo, una realtà per certi versi abbietta, diretta, senza censure, ma sicuramente l’unica che possa essere definita tale. Chiudere gli occhi davanti alla vita non serve a nulla, questo il messaggio dell’artista, che con la grazia che la contraddistingue, riesce a parlare dei performer come di esseri umani, con sentimenti e slanci emotivi, che li vedono per la prima volta sganciati dal contesto erotico a cui appartengono per riacquistare la dignità di donne e uomini che spetta loro.

Al di là della legalità o meno della pornografia, l’artista sostiene che “questo per i performer è un lavoro a tutti gli effetti, che va visto  con la purezza formale delle immagini. Questi siti, nonostante possano apparire un facile trastullo per gente disturbata, sono, in verità, piattaforme in cui i performer vengono schedati e pagati per lo spettacolo che regalano al fruitore, costituendo per loro una fonte di reddito a tutti gli effetti”. Inoltre, Chiara confessa che, oltre al contenuto spinto di alcune performance, spesso si possono trovare anche live di persone dedite a dormire o a truccarsi, di persone che cucinano o leggono libri e questi attimi, decisamente rari in altri siti del genere, sono ciò che rende ancora più facile il lavoro di umanizzazione che spinge il suo estro artistico.

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i d e n t i t y -foto di Chiara Lombardi

Persone oltre lo schermo, ecco cosa sono i performer, che, a detta della Lombardi, sono fonte di riflessione sul tanto dibattuto concetto di bellezza. “Quello che mi ha colpito del sito Cam4 è proprio la varietà di uomini e donne che vi si ritrovano, corpi deformi e rovinati convivono con corpi scultorei, attimi di dolcezza si affiancano a momenti hard” precisa la fotografa, la quale, grazie alla sua ricerca, ha capito come anche qualcosa che vada completamente fuori dallo spettro della bellezza come sinonimo di perfezione -che la società spesso ci impone- possa provocare piacere nello spettatore ed essere considerato parimenti avvenente. “C’è tanta varietà al mondo e anche quello che piace è diverso, quindi magari ciò che per me sembra brutto, per altri è eccitante. Non so se sia una cosa importante, ma a me dà una bella idea di umanità.” continua Chiara, nel suo fluido ed emozionato parlare. Nella sua voce si avverte un senso di appartenenza a questo progetto, un bisogno di mostrare ciò che è imperfetto e per questo, ancora più umano di un volto da rivista, di un’immagine precisa e pulita, nitida nella forma e nei colori. La varietà a cui Chiara si riferisce è quella delle forme, è vero, ma con essa quella dei sentimenti, delle emozioni che riesce a cogliere anche in situazioni in cui i più sono abituati a fermarsi all’apparenza.

“Senza il manifesto non so quanto si sarebbe capito del mio progetto” è costretta ad ammettere Chiara. “Prima di pubblicarlo, infatti, ho visto molta gente spaventata da Cam4Shots: non capiva cosa stesse succedendo, riconosceva solo la provenienza pornografica delle immagini, ma non la umanizzazione delle stesse. Quando, poi, ho spiegato che ciò che stavo facendo era tutt’altro, in tanti hanno compreso il progetto. La mia paura è che senza il manifesto quelle immagini sarebbero state ricondotte all’ambito sessuale e non a quello artistico ed è per questo che credo che la mia ricerca debba andare avanti”.  E continua “Un corpo nudo non è volgare, se viene tolto dal contesto di volgarità. Un famoso critico sostiene che una foto di una donna durante una seduta ginecologica non sia pornografica, ma, tolta da quel contesto, divenga immediatamente immagine erotica. Ecco, io ho voluto fare il contrario”.

Trovare l’umano oltre la comune concezione di umanità stessa, questo lo sforzo di Chiara Lombardi, un impegno difficile da recepire con immediatezza, ma necessario per cambiare la prospettiva con cui guardiamo gli altri e prima ancora, noi stessi. I corpi sono corpi, le persone sono persone, decontestualizzare e ricontestualizzare l’immagine è un processo fondamentale per aiutarci a comprendere che “ogni cosa può essere arte, se la si guarda dall’occhio dell’artista”.  Nonostante la Lombardi stessa consideri la sua opera come “una goccia nell’oceano” e ammetta che c’è ancora molto da fare, il suo è un lavoro doveroso e merita di essere  apprezzato alla luce di un contesto sociale in cui il corpo umano viene sessualizzato ai massimi livelli, in maniera del tutto inappropriata e non necessaria. Chiara Lombardi è capace di cercare e ritagliare la bellezza oltre lo schermo, non solo del computer, ma dei nostri pregiudizi, degli occhiali appannati che inforchiamo ogni volta in cui ci appare più facile puntare il dito contro un certo fenomeno, piuttosto che indagare le vere ragioni che lo originano. L’artista è riuscita ad interpretare con profondità e purezza uno scambio di emozioni, un groviglio di corpi nudi che, per la prima volta, mostrano al mondo il loro volto reale e sincero, in un passaggio di testimone da un passato che li vede cose, ad un presente in cui si lasciano vedere come tali per il piacere di farlo. C’è  volontà nei loro gesti, non più mera voluttà, una volontà che li spinge a essere soggetti e non più oggetti delle fantasie altrui, a essere semplicemente persone, senza accezioni o giudizi di nessun tipo.

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Alla ricerca del reale – foto di Chiara Lombardi

Cam4Shots è un agglomerato di vulnerabilità, di dolcezza, di piccoli momenti rubati alla quotidianità da uno sguardo attento e delicato che scivola sui corpi nudi, vestendoli dell’unico abito realmente necessario quello della verità e della purezza. Dobbiamo, quindi, ringraziare Chiara Lombardi per la sua opera, tramite la quale siamo chiamati a riflettere su quanto la volgarità, che siamo pronti a trovare negli altri, si sia, ormai, insidiata nelle nostre coscienze, tanto da non permetterci di riconoscere ciò che c’è oltre la nudità, oltre l’esteriorità. Persone vive, realtà pulsanti e (talvolta) aberranti, questo è Cam4Shots, questo è il progetto di un’artista chiara di nome e di fatto, una perla rara nell’attuale scenario fotografico, di cui sono fiera di essere amica.

Per guardare con i vostri occhi di cosa si tratta e per sentire la viva voce della creatrice di Cam4Shots, vi basterà recarvi il 5 ottobre (e in altre 6 date) a Brescia, all’Art Educational Center, in via Tosio 1G, e assistere alla presentazione del progetto di Chiara Lombardi, in occasione della sua personale, sarcasticamente intitolata “We romoved your face, because it doesn’t follow our community guidelines” (Abbiamo cancellato il tuo volto perché non segue le linee guida della nostra community).

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locandina della personale di Chiara Lombardi all’Art Educational Center di Brescia

Se, invece, non siete in zona, potete seguire i lavori di Chiara Lombardi su Instagram (@xchiaralombardix) oppure sulla sua pagina ufficiale di Facebook, per supportare questo ed altri progetti e rimanere sempre aggiornati sulle sue future mostre.