Covid-19: le esperienze degli Italiani all’estero

«Era come se stesse per scoppiare una bomba.» Così, Paolo descrive l’angosciante atmosfera che si respirava poco prima del lockdown, a Madrid, città nella quale si è trasferito per seguire un Master in Giornalismo e Comunicazione Sportiva.

«Abbiamo subodorato che le cose si stessero mettendo male anche per la Spagna, quando la Comunidad de Madrid ha deciso di chiudere le scuole e le università. Oramai era chiaro che stessimo seguendo la strada dell’Italia» continua, spiegandomi che di Covid-19, in Spagna, se ne era parlato già prima della quarantena, quando a Vitoria-Gasteiz, nel Nord del Paese, erano stati riscontrati i primi casi sospetti.

«Mi conforta sapere che non sono stato l’unico ad aver sottovalutato la situazione. Inizialmente, pensavo sarebbe stato un focolaio contenuto e dopo aver sentito dei primi casi in Lombardia, credevo sarebbe successo lo stesso anche in Italia. Invece, quando hanno annullato persino il viaggio-studio in Svizzera, organizzato dall’università,  ho avuto la certezza che non si sarebbe trattato di un problema passeggero».  Parlando del Master, attualmente, tutto appare bloccato: «Continuiamo a fare lezione online, ma eventi, match e conferenze stampa, a cui avremmo dovuto prendere parte, sono stati annullati o sospesi e lo stesso vale per i tirocini, che speriamo di riprendere a settembre».

view of royal palace in spain

Palazzo Reale, Madrid di Luis Quintero on Pexels.com

Nonostante ciò, Paolo ha deciso di non fare rientro in Italia. «Certo che mi piacerebbe tornare, credo sia il pensiero di tutti. Vorrei rivedere la mia famiglia, i miei nonni; manco da casa da Ottobre … quanti mesi sono passati? Non me lo ricordo neanche più!» ammette, «Però la situazione è particolare, i voli sono pochi e quasi sempre vengono cancellati. So che, tempo fa, la Farnesina ne aveva messi a disposizione alcuni, forse li organizzerà nuovamente, ma non sono molto convinto di fare questo passo: mi sembra avventato e non voglio che un viaggio si trasformi in un’Odissea» conclude. Difficile dimenticare il tono preoccupato della sua voce, mentre mi saluta, augurandomi buona fortuna.

«Dalle mie parti, c’è stata letteralmente una corsa all’oro» conferma Valentina, una studentessa italiana in Erasmus a Tarragona. «Persone che, fino al giorno prima, avevano vissuto la movida tarragonese, tra feste e uscite di gruppo, si sono catapultate sui primi voli disposti dalla Farnesina, per ritornare a casa. È stato proprio per evitare tutta quella calca, che ho pensato fosse più opportuno restare qui, in Spagna: volevo preservare me stessa e la salute della mia famiglia. Così, dopo la partenza della mia coinquilina, ho vissuto 50 giorni di quarantena, in completa solitudine».

«In queste settimane, ho cercato di darmi dei pensieri fissi, in modo da scandire la mia giornata» continua a raccontarmi, «ritagliarmi, tra le ore di studio, un momento da dedicare allo sport o alla mia grande passione: la cucina, sperimentando ricette locali, suggeritemi dai miei amici spagnoli. Ogni giorno, sono stata inondata di videochiamate di amici e familiari e il loro affetto mi è giunto, nonostante la distanza».

Riflettendo sull’esperienza appena vissuta, mi confida: «Trovandomi sola in casa, per la prima volta, mi sono sentita un po’con le spalle al muro. Dopo i primi mesi di Erasmus, in cui mi sembrava di essere una trottola che gira vorticosamente, poiché sa che, se si fermasse, perderebbe alcune esperienze irripetibili, mi sono finalmente data il tempo di pensare all’importanza di avere un luogo che si possa definire CASA. Insomma, mi sono riappropriata dei miei spazi personali, completamente da sola e in un contesto tutt’altro che regolare, il che mi ha ulteriormente arricchito».

woman holding two smartphones busy texting

Photo by Kate Trifo on Pexels.com

Da un punto di vista sociale, però, la quarantena, a detta di Valentina, non ha portato ai risultati da lei sperati: «Adesso che qui, in Catalogna, siamo fuori dal lockdown, trovo particolarmente irrispettoso che si vada in giro senza i presidi sanitari consigliati, vivendo all’insegna della assoluta normalità. Mi guardo attorno e mi sembra che la gente abbia vissuto due mesi in letargo e adesso, si sia svegliata, dimentica di ciò che è accaduto finora. Speravo in una maggiore responsabilizzazione della popolazione, che, invece, si ricorda del Covid-19, solo quando, alle 20:00, applaude dal balcone, commemorando le vittime del virus. Un gesto un po’ ipocrita, sinceramente».

Anche Alessandra ha deciso di rimanere in Spagna. Partita dopo la laurea per fare esperienza all’estero, si è trasferita a Valencia poco prima dello scoppio della bomba. «Sono arrivata qui il primo di febbraio e nemmeno venti giorni dopo, si è iniziato a parlare di casi di coronavirus in Italia. Quando ci è giunta la notizia, il governo spagnolo ha tentato di rassicurare i cittadini, minimizzando il problema. Era un periodo di cambiamento per me: da quando ho terminato il mio Erasmus in Spagna, ho desiderato tornare a vivere qui; ci ero finalmente riuscita e BOOM, è arrivato il Covid-19. È per questo che, inizialmente, del virus non volevo minimamente sentir parlare: mi appariva come una minaccia, un ostacolo alla realizzazione dei miei sogni e fare un passo indietro per tornare in Italia, dopo tanti sacrifici e avendo anche trovato lavoro, mi sembrava un enorme fallimento» mi riferisce, mentre, indaffarata, prepara la cena. «La mia fase del rifiuto si è, però, presto scontrata con la realtà. Dopo aver reso noti i primi contagi, la Comunidad de  Madrid ha chiuso scuole e università, lasciando, però, ancora aperti i confini della regione. Così, molti cittadini ne hanno approfittato per trascorrere il weekend a Valencia e Barcellona: nel giro di una settimana, il virus si è diffuso anche qui».

È stato con l’inizio della quarantena che Alessandra ha cominciato a preoccuparsi maggiormente per le sorti sue e della sua famiglia: «I miei genitori mi hanno più volte chiesto di tornare in Italia e testardamente, mi sono sempre rifiutata, forte del fatto che, grazie allo smartworking, avessi mantenuto il mio lavoro come insegnante privata. Nonostante fossi sicura della mia decisione, le notizie poco rassicuranti provenienti dall’Italia e la difficile situazione spagnola mi hanno fatto vivere momenti di grande sconforto. Al di là delle preoccupazioni personali, infatti, il problema che stiamo affrontando è globale e mi fa sentire decisamente impotente. Non è bello vedere la tua Nazione e il resto del mondo in queste condizioni e ancora meno essere incapace di prestare un aiuto fattivo».

woman having video call in home office

Photo by Ivan Samkov on Pexels.com

Per quanto riguarda il suo futuro più prossimo, Alessandra naviga a vista: «Aver continuato a fare video-lezioni non mi ha fatto pesare eccessivamente la quarantena. Sono sempre stata una persona molto attiva e sono felice che, nonostante le dovute restrizioni, nemmeno in questo frangente mi sia fermata. Devo ammettere, però, che, se fin qui è andata meglio di come sperassi, guardando al domani, la mia apprensione è molteplice.  La Spagna sta entrando nella Fase 1 (ndr. la Fase 2 italiana) in maniera scaglionata: a seconda del numero dei contagi di ciascuna regione, si decide se riprendere o meno le attività socio-commerciali. Noi, per esempio, siamo ancora in Fase 0 (ndr. quarantena) e questo ha acuito i dissidi politici tra la Comunità Valenzana e il governo centrale. Capirai che la situazione attuale non è delle migliori e la mia preoccupazione non è solo politica, poiché tali decisioni influiranno anche sul mio lavoro, che non so se mi verrà rinnovato o meno».

Insomma, l’incertezza resta alta, ma Alessandra non si dà per vinta: «La mia consolazione è sapere di aver fatto tutto ciò che era in mio potere per continuare a stare in Spagna e realizzare il mio sogno. Anche se dovessi tornare a casa, non ho nulla da recriminarmi. Sono in pace con me stessa, nella consapevolezza che non tutto, nella vita, può essere controllato. L’importante, per me, è averci provato fino in fondo» mi dice fieramente, conscia che la Spagna sia il suo posto nel mondo.

Ben diversa, invece, è la prospettiva di Floriana e Alessio, una coppia di italiani all’estero che ha deciso di trascorrere insieme la quarantena. «Appena prima che chiudessero i confini regionali,» mi spiega Alessio, «ho capito che non avrei voluto passare il lockdown da solo, a Valencia; quindi, ho immediatamente raggiunto Floriana in Catalogna». Trasferitosi da poco in Spagna, Alessio ha presto trovato lavoro presso un’azienda valenzana, ma la crisi Covid-19 non ha aiutato il suo settore. «A Fase 0 inoltrata, mi sono trovato senza lavoro e adesso, non posso fare altro che mandare curriculum e fare colloqui su Skype, nella speranza che la situazione occupazionale si sblocchi al più presto. Il piano è rimanere qui fin quando la mia fidanzata non terminerà il dottorato e poi, magari, tornare in Italia. Nel frattempo ci reinventeremo, non possiamo, di certo, stare con le mani in mano!» esclama con energia.

couple walking on street

Photo by JoEllen Moths on Pexels.com

«Non mi sento di poter dire che, qui, ho trovato una nuova casa» mi confessa Floriana, in un lungo sfogo telefonico. «Intendiamoci: ho passato anni, in Italia, a cercare lavoro in ogni settore e quando ho avuto la possibilità di svolgere un importante dottorato di ricerca in una cittadina della Catalogna, non ci ho pensato due volte e sono partita, soprattutto perché, avendo già vissuto in Spagna, ne serbavo un ricordo positivo. Sono sicuramente grata per l’opportunità ricevuta, ma a livello umano mi sento particolarmente frustrata. Ho notato una grande differenza culturale tra le varie regioni iberiche: da queste parti, sia io che gli altri ragazzi stranieri, che ho avuto modo di conoscere, ci sentiamo ancora degli estranei, eppure è più di un anno che siamo qui».

«Tirando le somme,» conclude «posso dire che questa quarantena, per lo meno, mi è servita a fare chiarezza su ciò che voglio dal mio futuro: concludere il lavoro che ho iniziato e che porto avanti con impegno e poi pensare a spostarmi in un’altra regione spagnola o, nel migliore dei casi, a tornare in Italia insieme ad Alessio. Insomma, la nostra Fase 1 sarà una sorta di countdown verso il rimpatrio!» scherza alla fine, pur lasciando trasparire una nota di delusione.

Le parole di Floriana sono un ottimo spunto di riflessione  per considerare il ruolo che le differenze culturali hanno giocato nell’affrontare la crisi Covid-19. A questo riguardo, nella corsa alla ricerca del modello da copiare, mi viene in mente l’esempio della Svezia, nazione eletta, da tv e giornali nostrani, patria del senso civico, la quale, solo grazie alla collaborazione di tutti i cittadini, ha fronteggiato la crisi con estrema razionalità, senza subire momenti di stop.

«Mettere a confronto la Svezia e l’Italia significa paragonare due mondi completamente diversi, ove nessuno è migliore dell’altro» chiarisce immediatamente Melania, che, insieme al suo fidanzato, vive a Uppsala (Svezia), dove lavora come ricercatrice universitaria.

holidays car travel adventure

Photo by Mihis Alex on Pexels.com

«Quando in Italia è scoppiata l’epidemia, mi sono molto allarmata; si sa, stando lontani da casa, le paure raddoppiano. Successivamente, insieme al mio ragazzo, ho cercato di essere razionale e pensare scientificamente, nel tentativo di capire cosa stesse succedendo. Intanto, il numero dei contagi iniziava ad aumentare anche qui. Adesso, siamo a circa 26mila casi in tutta la Svezia, ma non ha senso parlare di infetti dal momento che, da noi, i test a tappeto non sono mai stati somministrati. Posso, invece dirti che la curva dei contagi cresce molto più lentamente che in Italia, complice, appunto, una cultura diversa dalla nostra, fatta di abitudine al distanziamento sociale e alla vita prettamente casalinga» mi aiuta a comprendere, Melania. «Per quanto riguarda le misure governative, nonostante i morti e gli infetti, in numero superiore rispetto ai restanti Paesi Scandinavi, in Svezia, ci si è basati soprattutto sul buonsenso della popolazione. La maggior parte degli svedesi ha compreso, in totale autonomia, la pericolosità del virus, prendendo le precauzioni necessarie, ma le attività non si sono mai davvero arrestate: le scuole sono aperte, i bambini giocano per la città e i pub e i parchi restano luogo di ritrovo per i più. Io, per esempio, non ho potuto svolgere la mia attività da casa e mi sono dovuta recare quotidianamente sul luogo di lavoro. In queste condizioni, devo ammettere, non è stato facile per me. Non mi sono sentita tutelata e non mi sento, tuttora, sicura. Ogni giorno, per lavoro, rischio di infettarmi e trasmettere il virus a chi mi circonda e questo mi crea preoccupazione». Mi confessa, poi prosegue, spiegandomi che le norme così blande introdotte in Svezia, oltre ad essere dettate dalla situazione culturale, trovano anche altre basi: «Secondo la legge costituzionale della Svezia, non si può vietare la libertà di scelta dei cittadini, inoltre la minore densità abitativa, di cui vanta questo Paese, permette un migliore contenimento del virus; senza dimenticare che i tecnici che governano la Nazione professano la tesi dell’immunità di gregge».

L’ormai famoso lemma immunità di gregge è entrato a far parte del nostro vocabolario anche grazie ad uno dei suoi più importanti fautori, il premier inglese Boris Johnson, il quale, inizialmente, ha propeso per l’esposizione in massa dei cittadini britannici al Covid-19, successivamente, ha fatto marcia indietro, introducendo misure di limitazione del virus.

person holding petri dish

Photo by Anna Shvets on Pexels.com

«Quando il coronavirus ha raggiunto l’Europa, io mi trovavo a Leicester (UK), dove sono tuttora.» A parlare è Cesare, ricercatore per il Research Centre for Museum and Galleries e dottorando in Museum Studies, che, dal 2013, vive nel Regno Unito. «Inizialmente, la situazione mi ha alquanto confuso: in Italia le misure di contenimento erano già state introdotte, invece, qui, il Primo Ministro continuava a procrastinare, dicendo di essere guidato dalla scienza. Eppure, sembrava che il Governo si stesse rifugiando dietro il baluardo della scienza per evitare le proprie responsabilità. Poche settimane dopo, infatti, anche noi eravamo in lockdown». Come per Valentina, anche per Cesare, stare tutto il tempo da solo, chiuso in un piccolo appartamento in centro, non è stato facile, ma, tra workshop online e stesura del progetto di dottorato, si è tenuto impegnato, superando i primi attimi di sconforto. Infatti, quando gli chiedo se, in questo periodo, abbia avuto intenzione di tornare a casa, la sua risposta è categorica: «No, non ho mai pensato di tornare in Italia. Vivo nel Regno Unito da anni, ormai e per quanto la mia famiglia sia ancora lì, non vedo più l’Italia come la mia residenza stabile. Sarei dovuto tornare a trovare i miei ad aprile e a giugno, ovviamente queste piccole gite sono saltate, ma le recupererò in futuro».

Chi, invece, è tornata a casa è la sua amica Noemi, insegnante in una scuola elementare di Londra, dal lunedì al venerdì e cameriera in eventi privati, durante il weekend, la quale mi rivela che il burrascoso rimpatrio nella sua Reggio Calabria è avvenuto per intercessione di una persona a lei molto cara. «In Inghilterra, le scuole non hanno mai chiuso, per dare adito ai figli delle famiglie meno abbienti e dei lavoratori essenziali di non restare soli a casa» narra. «Ai primi di marzo, mi trovavo in classe, quando ho ricevuto una telefonata dall’Italia: era mia nonna, in lacrime, che mi pregava di tornare. Non riesco a pensare che nessuna delle mie nipoti sia al sicuro, mi ha detto. Infatti, mentre io ero lontana e rischiavo di contrarre il virus, a causa del mio lavoro, mia sorella era in una situazione ben peggiore della mia, poiché, lavorando come medico a Milano, si trovava a stretto contatto con numerosi pazienti infetti. Dal punto di vista economico, inoltre, non potevo più permettermi di pagare tutte le spese di vitto e alloggio senza il mio secondo lavoro, ovviamente sospeso a causa della interruzione di eventi e feste. Insomma, alla fine, ho fatto un bilancio dei pro e dei contro e mi sono convinta a tornare. Ho prenotato un biglietto per Roma con un volo della Farnesina e di lì ho preso un altro aereo per Lamezia».

people on a video call

Photo by Anna Shvets on Pexels.com

L’accoglienza ricevuta da Noemi, però, non è stata delle migliori. «Nonostante il permesso della Farnesina, sono stata trattenuta per quasi un’ora all’aeroporto, finché, dopo vari battibecchi, non mi hanno rilasciato con una dichiarazione di ingresso ingiustificato. Non è il modo in cui mi aspettavo di essere accolta dal mio Paese, ma l’importante è essere qui e stare bene». Poi chiosa: «Chiaramente, mi manca molto la mia vita a Londra e il mio lavoro, che ho la fortuna di poter continuare a svolgere, pur se a distanza, ma tornare in Italia, per me, è stata la cosa migliore da fare, sotto tutti i punti di vista».

Non meno difficoltoso è stato il rientro di L., che, nei giorni immediatamente precedenti all’inizio del lockdown italiano, si è trovata a dover affrontare molteplici spostamenti. «A febbraio, sono partita per l’Irlanda, con lo scopo di seguire un corso di inglese della durata di un mese. Qualche settimana dopo il mio arrivo, mi sono giunte le prime notizie sul propagarsi del virus nel Nord Italia e mentre i miei genitori erano spaventati e la stampa locale si occupava dei crescenti contagi italiani, l’Irlanda non accennava a prendere posizione in merito. Nessuno usava i presidi medici indicati -che, tra l’altro, rimanevano quasi introvabili– e nella struttura in cui alloggiavo, continuava ad essere accolta gente proveniente da tutto il mondo. Negli ultimi giorni di Febbraio, sono giunti persino dei ragazzi da Milano, che, all’epoca, era già zona rossa. La mia paura diventava sempre maggiore. Inoltre, sapevo che, a inizio marzo, mi sarei dovuta recare in Francia per una competizione di wine law, a cui dovevo partecipare a nome della mia università. Nonostante, fino alla fine, abbia cercato di raggiungere la Francia direttamente dall’Irlanda, i numerosi voli cancellati mi hanno costretto a tornare in Italia, per poi ripartire per Reims, il mattino seguente.»

aircraft wing

Photo by Kaique Rocha on Pexels.com

Una volta arrivata all’aeroporto irlandese, L. mi racconta di non essere stata sottoposta a nessun controllo. «Era come se l’emergenza Covid-19 non li toccasse minimamente. Appena atterrata in Italia, mi è sembrato di essere catapultata in una realtà parallela: mi è bastato vedere il personale con tute anticontagio, mascherine e guanti per comprendere il rischio che stavo correndo».

A quel tempo, mi assicura L., anche la Francia sembrava ignorare il problema: «Ho parlato con gli organizzatori dell’evento per chiedere loro di esimermi dal partecipare, ma mi hanno risposto che se non fossi andata, il mio team sarebbe stato squalificato. Anche il mio superiore ha voluto che partissi, non mi potevo rifiutare! Per questo, con non poco timore, sono arrivata a Reims. Lì, sono venuta in contatto con almeno una quarantina di persone, anch’esse prive di presidi sanitari». Conclusa la competizione, L. si è trovata a dover vivere una vera e propria avventura, tra coincidenze annullate e voli dai prezzi esorbitanti. Dopo aver attraversato, in una notte, metà del Paese, col telefono alla mano per non perdersi la conferenza stampa del premier Conte – che annunciava l’avvio della quarantena in tutta Italia-, L. ha finalmente raggiunto il solo aeroporto che le permettesse rimpatriare. «Al gate, gli italiani si riconoscevano subito: eravamo gli unici a tentare di mantenere le distanze di sicurezza e seguire le norme igieniche impartiteci dal  Ministero della Salute. Alcune coppie con bambini avevano le lacrime agli occhi, mi hanno raccontato che, trovatesi, da un giorno all’altro, bloccate in Spagna, senza aerei né treni, hanno dovuto, prima, raggiungere la Francia in auto e poi, imbarcarsi sul primo volo per l’Italia».

Alla fine, toccato il suolo italiano, L. ha iniziato la quarantena, separata dalla sua famiglia: «Ho preferito stare a casa da sola, invece di tornare dai miei, mai avrei voluto esporli a tanti pericoli! Mi sono resa conto di aver fatto la scelta giusta, quando, una settimana dopo il mio rientro, l’istituto irlandese, presso cui avevo seguito i corsi di lingua, mi ha inviato una mail, avvertendomi che ero entrata a contatto con una persona affetta da Covid-19 e che avrei dovuto immediatamente autodenunciarmi alle autorità locali. Non immagini che spavento! Ho pensato a tutte le persone che avevo incontrato in quel periodo e che avevo potenzialmente infettato.

woman with latex gloves adjusting her face mask

Photo by ready made on Pexels.com

Per venti giorni, sono stata completamente barricata in casa, finché la stessa ASL non mi ha dato l’autorizzazione a uscire per fare la spesa. Fortunatamente, sto bene, ma non è stato facile vivere tutta questa altalena emotiva senza nessuno al mio fianco, soprattutto dopo aver trascorso tanti momenti incredibili insieme a persone fantastiche. Sono 5 mesi che non vedo la mia famiglia. Mi si stringe il cuore a pensare di aver trascorso la festa della mamma lontano da casa, ma tornare dai miei mi sembra azzardato. Spero di riabbracciarli presto, perché mi mancano da morire!».

«Ora che sono tornata a casa, mi sento molto meglio» queste sono le prime parole di Rita, che, come Alessandra, ha dovuto convivere col coronavirus, fin dal suo trasferimento a Brighton. «A fine gennaio, ero appena arrivata in UK per svolgere il mio tirocinio e già, nel mio ufficio, si iniziava a parlare di questo famoso virus cinese. Devo dire di essere stata fortunata, poiché, sebbene le misure di contenimento introdotte in Inghilterra siano state adottate in ritardo, il mio capo si è subito dimostrato attento al problema, ordinando immediatamente mascherine e guanti per tutti i dipendenti. Il momento di panico vero e proprio, però, lo abbiamo vissuto a metà febbraio, quando non solo si è scoperto che l’untore,di cui parlavano tutti i TG, era proprio un cittadino di Brighton, ma soprattutto quando una mia collega ha iniziato ad avvertire i sintomi del virus, dopo essersi recata in un clinica, chiusa a seguito della presenza di diversi casi di Covid-19 non individuati in tempo. Insomma, abbiamo chiuso l’ufficio, aspettato di sapere come stesse la nostra collega e poi lo abbiamo riaperto, ma solo per pochi giorni, infatti, dopo qualche settimana, abbiamo intrapreso ufficialmente lo smartworking». Sottolinea, inoltre, che la scelta del telelavoro è stata compiuta del suo capo in modo del tutto discrezionale, poiché, allora, il governo inglese non aveva ancora provveduto a emanare misure di alcun tipo.

woman with a face mask having a video call

Photo by Ivan Samkov on Pexels.com

Circa 15 giorni dopo, Rita ha ricevuto una chiamata proprio dal suo superiore: «Prendi il primo volo e vattene, ché qui chiuderanno il Paese da un momento all’altro! mi ha detto e allora, ho iniziato la ricerca del volo e dopo varie cancellazioni, sono riuscita a tornare il 24 Marzo, riducendo il mio tirocinio da tre a due mesi.» E la tua collega come sta? Ha fatto il tampone? Le domando. «No, no, quale tampone!» mi risponde secca, «In Inghilterra ci si sottopone al test solo in casi particolarmente gravi, mentre lei aveva soltanto un forte mal di gola. Le hanno detto di restare a casa e attendere che i sintomi si acuissero per richiamare le strutture addette. Per fortuna, il dolore è passato e abbiamo anche scoperto che, pur essendo stata in quella clinica, non era entrata a contatto diretto con i soggetti infetti. Ora sta bene, ma ci ha fatto prendere un bello spavento!» mi rivela, ancora sbigottita.

«Mi sembrava che fossero tutti ignari della pericolosità del Covid-19 o che, semplicemente, non si curassero abbastanza di ciò che stava succedendo» questo è il quadro dipinto da Camilla, una giovane studentessa in Erasmus a Manchester, che, a causa del coronavirus, è stata costretta ad abbreviare il suo soggiorno all’estero, da nove a sei mesi. «Da quando ho avuto notizia di ciò che stava succedendo in Italia, ho iniziato anch’io ad attuare regole di isolamento e distanziamento sociale. Era Marzo e in Inghilterra le persone si comportavano come se niente fosse, i pub erano pieni e anche i miei stessi amici continuavano ad uscire regolarmente. Eppure, io non me la sentivo di far finta di niente, con tutto quello che stava accadendo in Italia e nel mondo. Ricordo ancora quel giorno in cui vidi la conferenza stampa del Premier Boris Johnson, le sue parole così distaccate, il suo preparatevi a perdere i vostri cari, mi stranirono molto. Pensai che la colpa delle tante morti, che Johnson ci stava anticipando, fosse delle autorità, che nulla stavano facendo per controllare l’avvento del virus».

person holding pen and writing on a notebook

Photo by Ivan Samkov on Pexels.com

È stato in quel momento che Camilla si è convinta a tornare in Italia: «Non posso dire di aver preso questa decisione a cuor leggero. L’Erasmus è stata un’esperienza entusiasmante e aver dovuto rinunciare, seppur in parte, a tutto ciò che avrei potuto continuare a vivere stando in Inghilterra, non è stato facile, ma ho preferito rientrare prima che fosse troppo tardi. Spero, comunque, di poter tornare a Manchester appena l’emergenza si sarà conclusa, perché mi sono trovata davvero bene: l’università è eccellente e mi ha dato la possibilità di seguire le lezioni online, anche dopo il mio ritorno in Italia. Se devo essere sincera» prosegue,  «la crisi Covid-19, da un punto di vista prettamente accademico, è stata gestita molto meglio in UK che nella mia università di appartenenza. A volte, mi sembra che dalle nostre parti, invece di facilitare il percorso di uno studente, non si faccia altro che complicarlo …» si lascia andare, infine.

«Non voglio ripetere la stupida frase in Italia fa tutto schifo e all’estero va tutto bene: l’emergenza Covid-19, inizialmente, è stata presa sottogamba dal Belgio; le misure di contenimento sono state attuate con un certo ritardo -anche a causa della struttura federale del Paese, che, con i suoi 9 Ministri della Sanità, non permette di prendere decisioni rapide su argomenti tanto delicati- e ne stiamo tuttora pagando le conseguenze. Nonostante ciò, mi preme rimarcare che, a mio parere, l’atteggiamento tenuto dal governo belga sia stato connotato da maggiore maturità, poiché si è ragionato più sul come fare a risolvere il problema che sul cosa poter o non poter fare» mi scrive D., che, da quasi un anno, vive e lavora in Belgio.

drawing of hands being washed

Photo by Anna Shvets on Pexels.com

«Si è riflettuto, soprattutto, su come continuare a vivere senza rinunciare alla normalità, scongiurando danni a se stessi o agli altri; per questo, per le strade, sono stati affissi cartelloni che spiegano le norme da seguire e persino negli asili, rimasti aperti all’inizio della quarantena, si sono tenute lezioni per far comprendere ai bambini cosa fosse il coronavirus e come contrastarlo».

Come Cesare, anche D. non ha avuto esitazione del dirmi che, in questo periodo, non ha mai desiderato tornare a casa: «Rinunciare a restare qui, per dover rimpatriare e sottopormi a due settimane di quarantena obbligatoria, non mi avrebbe reso felice. Sono rimasto in Belgio e per quanto strano possa sembrare, proprio in queste settimane, in cui ho avuto meno possibilità di vedere e parlare con le persone del luogo – a meno che non fossero i cassieri del supermercato – mi sono sentito molto più vicino a loro».

«Dopo essere stato qualche giorno dai miei, sono tornato qui all’inizio di Marzo. Tre ore dopo il mio rientro, l’Italia veniva dichiarata zona rossa dal Primo Ministro, Giuseppe Conte» mi racconta. «Ricordo di essere stato spettatore della sua conferenza in un fastfood locale: a quel tempo, il Covid-19 contava un solo caso accertato su tutto il territorio belga e l’argomento occupava, a malapena, le terze pagine di politica estera. Non riuscivo a capire come due Paesi potessero trattare lo stesso tema in maniera tanto diversa. Così, ascoltando le parole del mio Presidente del Consiglio, mi sono reso conto che nessuna delle sue risoluzioni avesse davvero effetto su di me. Questa consapevolezza, mi ha fatto improvvisamente comprendere che la mia vita non era più nelle mani del governo italiano, che le mie sorti erano le stesse sorti del popolo belga. Mai come in quel momento, ho avvertito che una parte di me si stesse irrimediabilmente legando al Paese che mi stava ospitando

«Alla fine,» ironizza, «se ho trovato il coraggio di richiedere la tessera al supermercato e registrarmi al mio comune di residenza, dopo quasi nove mesi di incognito, è stato anche merito di questa esperienza».

Con queste parole, si conclude l’ultima delle dodici testimonianze che ho avuto modo di raccogliere nell’arco dell’ultima settimana. Dodici giovani italiani, tra studenti e lavoratori, che, grazie al potere del passaparola, mi hanno aperto le porte – è il caso di dirlo – della loro casa, raccontandomi, con schiettezza e un velo di preoccupazione, un frammento frastornato e inusuale delle loro vite. Alle loro storie, tutte diverse, eppure tutte accomunate da spiccata vivacità intellettuale, forza d’animo e capacità di adattamento, non intendo aggiungere riflessioni che risulterebbero superflue e scontate. Colgo, invece, l’occasione per ringraziarli per l’insostituibile apporto e l’immensa disponibilità dimostrati e mandar loro il mio più grande in bocca al lupo!

Filippo Marcelli: l’importanza di raccontare storie e il futuro del cinema d’animazione made in Italy.

«Andiamo al bar che ieri ha nominato Giulia (ndr ZUZU)!» Mi propone il mio ospite. Accetto il consiglio e dopo una lunga passeggiata, giungo, insieme a lui, nel locale designato. Luci soffuse e musica jazz ci accolgono; ci sediamo ad uno dei tavolini decorati con ritagli di fumetti e giornali e iniziamo la nostra chiacchierata.

Filippo Marcelli, classe ’97, reatino di nascita e fiorentino d’adozione, studia disegno, cinema e fotografia all’Accademia di Belle Arti del capoluogo toscano ed è proprio tra quei banchi, che ha scoperto la passione per la stop-motion. “La Formula dell’Oro”, il corto da lui realizzato insieme ad alcuni compagni dell’Accademia, online dal 20 Ottobre sul canale YouTube di Filippo (link alla fine dell’articolo), è un prodotto tutto home-made che non smette di riscuotere successi in vari concorsi di settore, riuscendo ad arrivare in finale e il più delle volte, a vincere, nonostante il budget minimo e la preparazione ancora in erba dei ragazzi coinvolti nel progetto.

Dio e Ademo

Foto di Filippo Marcelli- Backstage di La Formula dell’Oro

«Tutto è iniziato a Novembre del primo anno di Accademia, quando delle mie compagne di corso mi proposero di creare un cortometraggio in animazione 2D in bianco e nero. Il classico cartone animato, per intenderci! Il nostro professore di pittura aveva più volte menzionato il rapporto tra dipinto e alchimia e le mie colleghe ne erano rimaste affascinate, a tal punto da voler ideare una storia che si basasse proprio sulle avventure di un alchimista. Per qualche mese lavorammo alla sceneggiatura, ma il progetto, pian piano, svanì, per poi prendere nuovamente vita, l’anno seguente, quando Davide Tito, il nostro docente di anatomia, ci propose di realizzare, oltre alle tavole tradizionali, anche dei video, di un minuto circa, usando la tecnica dello stop motion per animare disegni in 2D o attori in carne ed ossa. Fu in quell’occasione che capimmo che avremmo potuto creare un prodotto video in stop-motion e iniziammo a ragionare su una versione embrionale de “La Formula dell’Oro”, dal freudiano titolo “ES” ».

 

Ma cosa si intende per stop-motion?

«La stop-motion è semplicemente una tecnica di ripresa» mi spiega Filippo. «Consiste nel fare una serie di foto consecutive ad una scena che, tra uno scatto a l’altro, viene modificata. La successione di questi fotogrammi realizza il video. Questo, ovviamente, accade anche nel cinema tradizionale, ma in quel caso i frame si susseguono automaticamente; qui, invece, l’obiettivo è dar luogo a movimenti altrimenti impossibili, come avviene in una nota pubblicità in cui le camicie si piegano da sole. Nei grandi film, per anni, la stop-motion è stata utilizzata per realizzare gli effetti speciali. In “Godzilla”, per esempio, la puppet animation, ossia l’animazione di pupazzi, ha reso possibile la creazione di personaggi che apparissero giganteschi, in grado di distruggere intere città, dando vita a situazioni che, altrimenti, sarebbero state inattuabili.»

«Con “La Formula dell’Oro”, invece, io e i miei compagni abbiamo scelto di produrre qualcosa che assomigliasse di più al grande cinema di animazione, utilizzando, per l’appunto, pupazzi con armatura e scenografie realistiche, al fine di ricostruire un impianto cinematografico tradizionale. Gli ambienti del corto e la traccia della storia erano già stati stabiliti nel canovaccio stilato precedentemente, ma si è reso necessario riprendere in mano la sceneggiatura, scriverla da capo e soprattutto, assegnare a ognuno della troupe il proprio ruolo, sulla base degli interessi particolari nutriti da ciascuno di noi. Così, io ho iniziato a occuparmi di regia, illuminazione dei set, montaggio e postproduzione; Francesca Sofia Rosso delle scenografie; Daniel “Tomo” Carrai e Eugenio Frosali della creazione del pupazzo e della sua armatura, inoltre, sempre Eugenio ha realizzato le animazioni in 2D e infine, Tomo e Francesca, insieme a Martina Generali e Cecilia Capelli, hanno dato vita alle animazioni in stop-motion. In ultimo, un ringraziamento speciale va a Lorenzo Di Cola che ha composto tutte le musiche del corto».

20180708_190649

Foto di Filippo Marcelli- Backstage, Creazione del set

Vedendo il lavoro ultimato, “La Formula dell’Oro” appare tutt’altro che un progetto a basso budget, eppure Filippo non nasconde che i set sono stati allestiti in camera sua e in quella dell’allora coinquilina Francesca. Narra, anzi, di una stanza invasa da attrezzature, ridotta ad un letto e al poco spazio necessario per entrare e uscire dall’abitacolo; poi, mi sciorina tutti i materiali usati per la costruzione dei set e per l’armatura di Nemo, il vecchio, barbuto alchimista, protagonista del corto.

 

«Abbiamo costruito il pupazzo praticamente da zero. L’armatura è stata fatta da Tomo, utilizzando una base di ferro, imbottita con garza e fogli di lattice, sulla quale è stato direttamente applicato il vestito cucito da Cecilia. Io ho solo aggiunto la barba, fatta coi baffi finti comprati da Tiger. Per le mani, invece, Eugenio ha creato uno stampo, nel quale è stato colato del lattice prevulcanizzato» racconta. «Una piccola curiosità, inoltre, riguarda il volto di Nemo. Per costruire la faccia di un puppet, di solito, si usano centinaia di varianti della stessa maschera, la quale è, a sua volta, divisa in pezzettini che possono essere combinati tra loro in più modi, per permettere al pupazzo di cambiare espressione. Per fare ciò, però, serve una stampante 3D precisissima, dal valore di circa duemila euro. Capirai che non avremmo mai potuto permettici niente di simile, quindi, abbiamo ovviato al problema digitalmente: Eugenio ha interpretato alcune delle espressioni di Nemo e in postproduzione, io le ho sovrapposte al puppet, realizzando l’animazione facciale di cui avevamo bisogno».

Marti bluffa

Foto di Filippo Marcelli – Backstage, creazione del set

«Per quanto riguarda i set, invece, ti posso dire che solo nello studio dell’alchimista c’erano circa 826 libretti realizzati in miniatura, uno ad uno. In primis, abbiamo creato le grafiche delle copertine a computer e le abbiamo stampate su carta opaca, infine, le abbiamo incollate su dei pezzi di cartone. Paradossalmente, se comparati al loro reale utilizzo, i libri sono stati, forse, l’oggetto più costoso che abbiamo creato. Gli atri elementi del set sono stati fatti con un materiale simile al fimo; li abbiamo scolpiti, cotti al forno e successivamente decorati con colori acrilici. In totale, abbiamo realizzato più di 100 oggetti di scena e anche i mobili sono stati fatti da noi, tagliando delle tavole di compensato» mi spiega Filippo e ne parla con una tranquillità tale da farlo apparire un lavoro del tutto ordinario per sei giovanissimi artisti come loro.

Altro elemento che colpisce è dato dalle colonne sonore. Imprescindibile, infatti, è l’accostamento tra immagini e musica, necessario soprattutto nei cortometraggi, per riuscire a condensare, in pochi minuti, sensazioni che altrimenti resterebbero inespresse o solo vagamente accennate. «La musica è stata fondamentale per noi, soprattutto perché il nostro protagonista non proferisce parola per tutta la durata del film. Abbiamo deciso di lasciarlo in silenzio per questioni pratiche. Ci siamo resi conto che non è possibile improvvisarsi né sceneggiatori né doppiatori e che nessuno di noi era in grado di assolvere a compiti simili. Se noi stessi avessimo dato voce a Nemo, probabilmente, sarebbe venuta parzialmente meno la credibilità e la riuscita del prodotto finale» ammette Filippo, poi prosegue: «Credo che la colonna sonora costituisca il 70% della riuscita di un film; per questo, ho contattato Lorenzo, un ragazzo aquilano che studia a Milano, affinché ci aiutasse nell’impresa. Lui non aveva mai composto musiche per cortometraggi, per cui è stato necessario un lungo confronto prima di capire quale mood volessimo dare alle singole melodie. Volevamo che il suono accompagnasse quello che le immagini, da sole, non potevano dire, senza mai anticipare nulla; che procedesse di pari passo allo scorrere delle figure, aiutando lo spettatore a empatizzare maggiormente con la storia e i personaggi.»

Schiaccianemo

Foto di Filippo Marcelli – Backstage di La Formula dell’Oro

Nonostante l’assenza di dialoghi,  “La Formula dell’Oro” porta con sé un messaggio ben preciso, esplicitato non solo dal saldo accostamento frame-suono, ma soprattutto delle frasi che anticipano le scene iniziali del lavoro. «Abbiamo deciso di inserire una sorta di prologo proprio per far sì che il corto arrivasse ad una rosa più ampia possibile di persone. Inizialmente, abbiamo fatto vedere il prodotto senza titoli di testa e in molti hanno palesato difficoltà nel comprenderne il significato; perciò, abbiamo iniziato a renderci conto che se avessimo voluto creare un film per tutti, avremmo dovuto noi stessi fornire gli strumenti necessari a renderlo accessibile a tutti, almeno nel suo significato generale. Ovviamente, per noi creatori esiste un significato ben più specifico, in cui sappiamo riconoscere e dare collocazione e nome a ciascuno dei personaggi, ma abbiamo sempre saputo che sarebbe stato difficile trasmetterlo nella sua totalità al pubblico. Ci è piaciuto, quindi, lasciare più alternative allo spettatore, ciascuna diversa eppure ognuna con lo stesso messaggio finale, ossia che, talvolta, è necessario lasciarsi qualcosa alle spalle, forse perdersi, per ritrovarsi e proseguire al meglio il proprio cammino. In fondo, è anche per questo che abbiamo voluto che il protagonista si chiamasse Nemo

DSCF0204

Foto di Filippo Marcelli – Backstage di La Formula dell’Oro

Finalmente, la mia curiosità sul nome dell’alchimista viene soddisfatta. «Come si può immaginare, il nome deriva anche, ma non solo, dal film “Alla ricerca di Nemo”. Da una parte, volevamo che si cogliesse un legame tra la storia di un padre che perde suo figlio e quella del nostro vecchietto che perde se stesso ed è costretto a ritrovare la sua vera identità e con essa, importanti pezzi del suo passato, compreso il rapporto col padre -che rivede nella scena delle pitture rupestri-. Dall’altra, abbiamo cercato di non personificare troppo il nostro personaggio e dal momento che nemo, in latino, significa nessuno, la storia di nessuno, per converso, è una storia in cui tutti possono rivedersi».

Nulla, quindi, viene lasciato al caso, nemmeno i più piccoli dettagli e non mancano le easter-egg, che i ragazzi hanno disseminato in lungo e in largo: «Lo studio è pieno di sorprese! Se aguzzate la vista scorgerete da Blade Runner” -di cui abbiamo riprodotto anche l’unicorno- ai Pink Floyd, fino ad arrivare a La Cosa” e ovviamente, lo stesso DVD di Alla ricerca di Nemo”. Ognuno di loro ha un significato legato a noi e al corto stesso. Per esempio, una delle easter-egg più evidenti è “Cuore di Tenebra” di Conrad, un libro che riprende il tema del viaggio e della ricerca di sé, che abbiamo, non a caso, deciso di collocare in una scena, per noi, molto significativa».

Dunque, per quanto sia partito da premesse quasi amatoriali, il lavoro di Filippo Marcelli e dei suoi colleghi è dettagliato, fine e appassionato come solo i più giovani sanno essere e apre le porte a progetti futuri, grazie ai quali l’industria cinematografica italiana potrebbe affermarsi in ambiti filmici ancora piuttosto trascurati nella nostra nazione.

Nemo nell'oceano

Tratto dal cortometraggio in stop-motion La Formula dell’Oro

«La mia aspirazione è quella di fare animazione in stop-motion rimanendo in Italia, magari creando uno studio di animazione sul modello di quelli internazionali. Al momento, le produzioni di questo genere sono quasi sempre straniere, per cui incrementare la creazione di film d’animazione tutti made in Italy costituirebbe, per me, una vittoria enorme. Grazie all’esperienza vissuta con “La Formula dell’Oro”, posso dire che ho avuto prova dell’enorme voglia di sperimentare delle nuove generazioni di addetti ai lavori e posso testimoniare che, in Italia, non mancano figure professionali specializzate, capaci di risollevare le sorti del nostro cinema d’animazione.» sostiene Filippo. «È pur vero, però, che se ti dicessi che voglio occuparmi solo di animazione, ti mentirei. Più di tutto, ciò che mi interessa sono le storie. Se trovo una tematica che mi soddisfa,  mi piace darle spazio tramite cinema, fotografia e disegno» precisa, in seguito. «Sono alla continua ricerca di storie e molte ne ho trovate nel mio viaggio in India. Qualche mese fa, infatti, ho avuto la possibilità di trascorrere 16 giorni nella regione del Gujarat, dove ho accompagnato il mio amico fotografo, Jordi Ferrando I Arrufat, che stava completando delle ricerche per la sua foto-inchiesta su ciò che rimane del gandhismo nella patria del suo fondatore, Gandhi. La cosa più stupefacente di questo viaggio, però, l’ho scoperta solo una volta tornato a casa: lì, mi sono accorto che quello che, per me, doveva essere un esercizio per riprendere a scattare come fotoreporter, si è tramutato in un’esperienza unica, in cui ho potuto toccare con mano una realtà variegata e lontanissima dai costumi occidentali, un’esperienza che ha dato luogo ad un inaspettato effluvio di pensieri, che ho messo per iscritto e conto di pubblicare, insieme ai miei scatti, all’interno di un libro fotografico» chiosa, dandomi l’assist per l’ultima domanda.

Primo Piano Nemo

Nemo

Qual è la prossima storia che vuoi raccontare?

Quando glielo chiedo, sorridendo, mi risponde così: «Ovviamente, “Blade Runner 2079” … Scherzo, anche se sarebbe bellissimo. Però, posso dirti che vorrei mettere le mie capacità a servizio di temi legati all’attualità. L’urgenza che sento, in questo momento, è quella di parlare del concetto di sdegno, che pervade i discorsi quotidiani di molti di noi e dei nostri politici, che è terreno fertile per violenza e odio razziale e di genere, che è tutto ciò che ci fa puntare il dito su qualcosa, senza cambiarla mai per davvero. Ecco, questa sarebbe una storia interessante da raccontare!» esclama, in conclusione.

Oramai, il suo ginseng e la mia cedrata sono solo un vago ricordo, depositato sul fondo del vasellame che abbiamo davanti. Paghiamo il conto e ci apprestiamo ad andar via. Sul tavolino, bustine di zucchero, briciole di patatine e la consapevolezza che sentiremo presto parlare di Filippo Marcelli e delle sue storie, tutte da raccontare.

Per sostenere Filippo Marcelli e il corto, “La Formula dell’Oro”, ecco alcuni link utili:

YouTube: Filippo Marcelli

La Formula dell’Oro:   clicca qui

Instagram: @steeely_laformuladelloro

Acquista le T-shirt del corto, scrivendo alla pagina Instagram: @cantiere_grafico

Partecipa al sondaggio sul Cinema d’Animazione, redatto da Filippo: clicca qui

L’autoanalisi illustrata di ZUZU: il fumetto e la bellezza

L’idea di intendere perfettamente qualcuno, senza averlo mai realmente conosciuto, pare essere una delle invenzioni più melense che i film romantici hollywoodiani ci abbiano regalato, una finzione narrativa capace di farci credere in legami ancestrali e indissolubili. Almeno, così ho sempre pensato, finché non ho incontrato Giulia Spagnulo, in arte ZUZU, una giovane illustratrice con cui ho avuto modo di discutere di temi che stanno a cuore a entrambe, ritrovandola più simile a me del previsto.

Ecco, Giulia mi ha fatto ricredere sui film americani. Intervistarla, per me, è stato come rileggere un libro, divorato anni prima e mai dimenticato del tutto, è stato come ricevere una serie di -belle- conferme, un insieme di risposte (a domande, forse, scontate) di cui avevo non il semplice presentimento, ma la quasi assoluta certezza. Più che conoscerla, mi è sembrato di riconoscerla, calandola perfettamente nelle sue opere. Un pensiero nitido e controcorrente, quello di ZUZU, che è emerso con chiarezza, durante la nostra lunga chiacchierata pomeridiana, tra colpi di tosse e sorsi di vino.

Imprinting è il termine che più esattamente racchiude non solo il mio incontro con Giulia, ma anche il suo con il mondo del fumetto. “In realtà è stata una scelta abbastanza impulsiva.” Racconta, “Fin da piccola, ho avuto la passione per il disegno, ma ad una carriera simile proprio non ci pensavo.” Mi spiega, quando le chiedo come tutto abbia avuto inizio. “Avevo diciassette anni, ero all’ultimo anno del liceo classico e mi trovavo in un bar con degli amici. Hai presente quelli che danno al cliente la possibilità di leggere libri e fumetti? Ecco, ero lì e non avevo mai letto un fumetto nella mia vita, quando mi è capitato tra le mani La mia vita disegnata male di Gipi (n.d.r. tenete bene a mente questo nome, tornerà tra qualche riga, in modo inaspettato e assurdo). Ovviamente, non conoscevo l’autore, ma il titolo e i disegni mi parevano interessanti, quindi, nonostante fossi in compagnia, l’ho iniziato a leggere e l’ho terminato quello stesso giorno, in quello stesso bar. È stato lì che mi sono detta: è questo che voglio fare da grande! Non c’è nulla che mi darebbe più soddisfazione nella vita. Da lì è nato tutto, da quel desiderio di raccontare storie.

Continua e non può fare a meno di sottolineare quanto l’aiuto economico e prima ancora, morale datole dai genitori, soprattutto da sua madre, sia stato fondamentale per la realizzazione del suo progetto di vita. “Naturalmente, il solo desiderio di comunicare tramite disegni non basta, per questo mi sono messa a cercare un percorso di studi, successivo al liceo, che mi permettesse di fare ciò che avevo in mente. Il paradosso è che è stata mia madre a trovarlo. Io avevo escluso fin da subito l’idea di frequentare il corso Illustrazione allo IED di Roma, essendo  questa una università privata, invece mia madre mi ha spinto a farlo, sostenendo che quello sarebbe stato il percorso più interessante per ciò che volevo realizzare e che avrei trovato i migliori professori in materia. E così è stato.”

Dalle sue parole, oltre all’immensa gratitudine nei confronti di chi ha creduto in lei fin dal primo istante, traspare una grande coerenza e precisione. Una chiarezza emotiva e interpretativa che è difficile trovare in giro, soprattutto se pensiamo che la nostra interlocutrice è nata solo nel 1996. Le regole narrative e visive che segue e distrugge nelle sue opere ci vengono presto spiegate: “Il mio stile non è un dono divino!” ammette subito, “È  frutto di lavoro, osservazione, conoscenza. È tutto sempre frutto di grande lavoro, quando si tratta di fumetti. Non credo che nessuno di noi, in questo ambito, abbia inventato nulla. Tutti rubiamo qualche forma, qualche gioco cromatico dai nostri artisti preferiti. È questo che mi ha insegnato lo IED e che più ho apprezzato del mio percorso formativo: abbiamo appreso stili, linee e colori, abbiamo studiato gli artisti del passato e i loro pensieri, i linguaggi visivi e le loro espressioni e poi, a differenza di quanto accade  solitamente nelle Accademie, abbiamo distrutto e rielaborato tutto, alla luce di ciò in cui ci riconoscevamo maggiormente.”

Un percorso soggettivo e intenso, quello degli illustratori come ZUZU, che parte dall’esterno per arrivare al cuore dell’artista, una strada, quella percorsa da Giulia, che si costruisce e decostruisce in un gioco di continui riferimenti e innovazioni. “Inutile dire che le mie ispirazioni maggiori sono state l’espressionismo tedesco, ma anche e soprattutto autori contemporanei come Jesse Jacobs, Gipi, da cui è partito tutto e tantissimi altri. Quando vuoi disegnare fumetti,  l’importante” chiarisce “non è il curriculum che hai, i voti dei tuoi esami o quello con cui ti laurei, l’importante è avere uno stile preciso e riconoscibile, che possa essere apprezzato dal pubblico e dagli editori.”

A proposito di stile, non si può certo dire che quello di Giulia non sia uno dei più facili da identificare. I suoi personaggi sembrano contorcersi sullo sfondo della pagina ipercolorata, piegarsi in forme articolate e in gesti così mollemente umani da risultare innaturali. Impossibile non chiederle, dunque, qualcosa in più su come abbia fatto ad arrivare a una concezione di bellezza così fiera ed altra da ciò che si vede in giro. Se pensiamo, infatti, a uno dei fumettisti italiani più famosi come Milo Manara e alle sue donne meravigliose e voluttuose o a chi si è da poco affacciato al mondo del fumetto, sfruttando i social come piattaforma interattiva per costruirsi un pubblico vasto e fedele, come Il Baffo e ai suoi soggetti blu, onirici, dalla bellezza che, pur essendo moderna, rasenta la perfezione, è evidente il discrimine segnato dalle creature disegnate da ZUZU, lontane dai canoni della tradizione, dalle proporzioni classicamente conosciute e ideate per fluttuare a mezz’aria in nuvole di caotici pensieri senza filtri né censure, spesso nude come vermi, per inneggiarne l’intrinseca vulnerabilità.

“Per quanto riguarda il concetto di bellezza e la mia scelta stilistica lontana dal classicismo, anche questa non è una scelta né del tutto naturale né completamente artificiosa. Diciamo che quello che faccio per me è molto bello, ma non perché io mi abbia grande stima di ciò che disegno e lo trovi eccezionale, ma perché è frutto di una precisa ricerca del bello. Anche se dai miei disegni sembra che prevalga il contrario, l’osceno, le figure spaventose e grottesche, io, in queste forme e anatomie, trovo la bellezza.” Confessa l’artista. “Per esempio, i nasi. Ecco, tanta gente, spesso, mi fa notare che i nasi che faccio sono strani, buffi, molto pronunciati e atipici. Questo nasce dal fatto, credo, che noi disegnatori, in fondo  in fondo, disegniamo sempre noi stessi, tendiamo sempre a farci un ritratto, anche se raffiguriamo qualcun altro o inventiamo un personaggio di sana pianta. Poiché, fin da piccola, ho avuto una sorta di complesso per il mio naso pronunciato e i miei occhi grandi, trasporto queste caratteristiche sui miei personaggi. Per quanto riguarda, invece, il resto del corpo, penso che, accentuando un piede o una gamba o le braccia e allungando o riducendo parti del corpo che dovrebbero essere più corte o più lunghe, io possa trasmettere  dei messaggi. È come se queste deformazioni parlassero per quell’individuo e dicessero qualcosa in più di lui, di ciò che fa e come lo fa, dando un’idea di confusione, rigidità, forza o debolezza. Dato che non sono foto e non si tratta di soggetti reali, ho la libertà di trasformare il mio personaggio a mio vantaggio: per me, anche il braccio, girato in senso opposto a come dovrebbe, o il ginocchio, che si trova in un posto in cui non dovrebbe anatomicamente collocarsi, raccontano una storia.”

Insomma, una narrazione a 360°, nascosta anche nei minimi dettagli delle tavole di ZUZU, che apre ad una riflessione maggiore sul concetto di bellezza in campo artistico e sociale. “Se nell’arte si è liberi di fare ciò che si vuole e non ritengo che la mia opera possa, né sia in grado, di sdoganare un concetto di accettazione di sé e delle proprie imperfezioni, è possibile che le mie illustrazioni siano di spunto per cambiare i rigidi parametri attorno ai quasi si avviluppa il concetto di bellezza socialmente riconosciuto e accettato.” Mi confessa, sottolineando che “attraverso il disegno e l’arte in genere, noi possiamo aiutare a comprendere che il bello non è da incasellare, ma da scovare. È bello ciò che fa riflettere e mettere in discussione i propri punti di vista, fino al punto di aprire conflitti. La bellezza è arte e l’arte non è mai unidirezionale o canonica. L’arte ti stupisce continuamente e così dovrebbe fare la bellezza. Forse, ci siamo dimenticati che quest’opera di destrutturazione dei canoni di bellezza, l’arte la compie da anni. Allora, probabilmente, dovremmo guardare alla bellezza, per così dire, sociale con la stessa libertà con cui si interpreta e trasforma la bellezza artistica.”

La libertà di cui parla Giulia è ben visibile nei suoi lavori, alcuni dei quali affrontano tematiche molto simili a quelle che ha indagato la fotografa Chiara Lombardi nel suo lavoro Cam4Shots (di cui abbiamo parlato qui) ed è proprio per questo che le due artiste si sono trovate a collaborare alla fanzine elaborata da Chiara durante il suo progetto. Due dei temi, quindi, che non potevano non essere trattati sono quelli della sessualità e del femminismo.

ZUZU ne parla così: “Come ho detto, l’arte è libertà e sarei stupida a non sfruttare questo mezzo per esprimere me stessa appieno, nonostante io abbia ancora alcune remore, che mi impegno quotidianamente ad abbattere. Per quanto riguarda la sessualità, molti dei miei lavori più che di sesso parlano di corpi e forme e credo sia necessario fare una precisazione: tutto può essere interpretato nell’ottica della sessualità, dalle persone agli oggetti inanimati, così come un corpo nudo può essere semplicemente un nudo, avulso dalla sfera sessuale e non c’è assolutamente nulla di sbagliato in nessuna delle due cose. Altra situazione ancora è la volgarità, che non va confusa coi due ambiti precedenti. Abbiamo, a tutt’oggi, problemi a fare queste distinzioni, ma non è nemmeno del tutto colpa nostra, dal momento che, fin da piccoli, siamo soggetti a dei pregiudizi e a dei ragionamenti che ci inculcano da sempre, ma che, magari, col tempo e con molta onestà intellettuale, scopriamo che non ci appartengono davvero.”

Ovviamente l’interesse a un tema simile non può che nascere da un forte bisogno ed è qui che l’animo femminista di Giulia si affaccia con tenacia. “Parlare di sessualità e nudi è fondamentale per me, poiché mi consente di ribadire l’importanza che la donna dovrebbe avere nella nostra società. Nonostante sia il 2018, spesso, devo pedantemente ripetere concetti basilari, come il fatto che la donna sia un essere umano e in quanto tale libera di esprimersi, vestirsi e comportarsi come preferisce, sempre, chiaramente, nel rispetto degli altri.

Talvolta, su Instagram, mi capita di postare disegni che, per alcuni, possono sembrare osceni o mie foto senza veli. Io li trovo necessari a ribadire i concetti di libertà di espressione e di parità, non vedo nulla di negativo nei miei post e devo dire che anche la mia community di riferimento, tranne in alcuni rari casi, si è sempre dimostrata di grande supporto nei miei confronti, forse, perché proprio il mio stile non convenzionale e lontano dai canoni estetici, a cui siamo abituati, tiene lontani i buzzurri dalle mie pagine e lascia solo coloro i quali siano davvero interessati all’arte e alle mie opere.” Sostiene, infine, con una certa fierezza, che si trasforma rapidamente in minima incertezza quando le chiedo la luna, ossia di condensare il messaggio del suo lavoro in poche, semplici parole.

“È davvero una domanda difficile!” ammette, poi, però, le basta riflettere qualche secondo per addivenire a questa conclusione: “Uhm, credo che più che il messaggio, il fine delle mie illustrazioni sia terapeutico. Partiamo dal fatto che mio padre è psichiatra e mia madre psicologa, quindi quello della terapia è un campo che non ho avuto difficoltà ad incontrare nella mia vita.”

 

SALUTEMENTALE

Illustrazione di ZUZU per la Giornata Mondiale della Salute Mentale

“Diciamo che i miei disegni mi aiutano a esprimere chi sono, quali sono i miei pensieri e le mie emozioni, sono una sorta di autoanalisi, a cui mi sottopongo, quando, oramai, le situazioni di cui parlo sono superate, quando mi sono distaccata abbastanza dal fatto concreto, tanto da poterlo sviscerare con chiarezza e poi vomitarlo sul foglio così come la mia analisi mi porta a fare.” Si ferma un attimo e alla fine afferma soddisfatta: “Se questa è la finalità con la quale opero, il messaggio potrebbe essere quello di comunicare apertamente con i lettori, con gli altri. In loro è la soluzione, la chiave di tutto. Un po’ come accade nel mio fumetto.”

Giulia, infatti, sta per pubblicare Cheese, la sua opera prima, che uscirà a marzo per la casa editrice Coconino Press, sul tema dei disturbi alimentari, un altro argomento a cui tiene molto, dal momento che ella stessa ha vissuto sulla sua pelle cosa significhi essere affetta da una problematica simile. “La storia è buffa e molto semplice.” dice, ridacchiando, “una ragazza che soffre di disturbi alimentari –che poi sarei io- insieme a due sue amici decide di partecipare ad una gara di formaggio rotolante, che è uno sport realmente esistente, che si pratica in Galles e in Italia, a Brentonico. La competizione consiste nel far cadere una forma di formaggio da un monte e chi dei concorrenti, rotolando, la prende per primo, vince. Quello della gara è, naturalmente, solo un espediente narrativo per raccontare le storie dei personaggi e far evolvere la protagonista, al fine di aiutarla nel suo percorso di guarigione. Ecco perché, ti dicevo, è terapeutico disegnare: perché mi permette di affrontare il mio passato, la mia storia, di fare una somma di quello che mi è successo, sdrammatizzandolo, ma lanciando comunque un messaggio a chi si trovi o si sia trovato al mio posto.”

La parola imprinting torna nella vita di Giulia, proprio nel momento più importante della vita di uno studente universitario, infatti, mi spiega: “La cosa divertente, però, non è tanto il fumetto, ma il modo, del tutto spontaneo, in cui è nato. In pratica, allo IED, come tesi di laurea bisogna presentare un prodotto editorialmente finito di qualsiasi tipo, ovviamente io, partendo dall’idea di voler fare un fumetto, mi sono detta che quella sarebbe stata la mia occasione e così ho presentato questo lavoro in sede di laurea. E proprio lì, il giorno della laurea, dopo aver esposto il mio lavoro, il mio relatore di tesi Francesco D’Erminio, in arte Ratigher, che da poco era diventato editore della Coconino Press, mi ha messo una mano gelida sulla spalla e mi ha detto Lo pubblichiamo! Per me è stato un momento di gioia inspiegabile, il giorno più bello della mia vita!” Esclama ancora un po’ commossa e aggiunge: “E vuoi sapere qual è la cosa ancora più assurda?  Il mio supervisore adesso è proprio Gipi, colui che mi ha fatto scoprire il mondo del fumetto e senza il quale, forse, la mia vita avrebbe preso una piega completamente diversa!”

Una serie di fortunate e -aggiungerei- meritate coincidenze, che hanno portato ZUZU ad essere una delle giovani firme della Coconino Press, pronta a fare la sua entrata ufficiale sul palcoscenico dei fumettisti italiani contemporanei. Un mix esplosivo di voglia di raccontare e raccontarsi tramite forme scomposte e grottesche, pensieri schietti e un’incontenibile energia creativa. Un concentrato di emozioni che potrete presto leggere in formato cartaceo, ma che, già da subito, potete ammirare nelle varie fiere che ospiteranno le sue opere in tutta Italia e sulla sua pagina ufficiale di Instagram (@sono.zuzu)e Facebook , dove avrete anche la possibilità di acquistare o commissionare stampe e disegni inediti.

Buona fortuna, quindi, a Giulia Spagnulo, in arte ZUZU, per il suo futuro e -le auguriamo- roseo percorso di autoanalisi illustrata!